Vertigini a Pois

“Adesso parlo a te, mia ossessione. Tu pallino continuo, costante. 
Di un colore acceso, incessante.
Per tanto tempo ti ho odiato. 
Mi hai spaventato e torturato. 
Sei arrivata quando meno me lo aspettavo. 
Mi hai creato paure che prima non avevo.
Mi hai fatto sentire sola anche quando non lo ero. 
Mi hai assillata.
Mi hai torturata. 
Una paura così ovale, così ripetitiva. 
Che cresceva e poi rimpiccioliva.
Sei stata per me notti insonni e giornate digiune.
E più mi parlavi, più io tacevo rimanendo a guardare la tua forma così semplice e sferica.


Ma poi ti ho usata, ti ho gestita e allora forse qualcosa in fondo te lo devo. 
Perché piano piano mentre il mondo cadeva a pezzi tutto intorno, io mi chiudevo in te. E mi salvavo con te. E mi sembrava di prendere al volo quei pezzi di mondo, e di riuscire a non farli frantumare al suolo. Mi sembrava avessero un senso presente, salvabile. E come un giocoliere, mi divertivo a destreggiarmi.
Sembrava che il mondo non cadesse più. Anche se in realtà continuava a farlo. 
E ogni suo pezzo aveva una faccia e una forma diversa. Mera illusione. Nient’altro che una ripetizione uguale all’altra, dentro la quale mi specchiavo e ritrovavo mille parti di me, infinite e ripetitive. Come se essere infinito potesse valere veramente qualcosa in quel momento. Perché infinito vuol dire sempre presente, immortale. E anche se poi mi accorgevo che infinito non valeva niente, perché tutto è mortale, con te mi consolavo. 
A volte sei stata dura però. Mi strappavi via quei pezzi che tu stessa mi avevi donato. Li vedevo sciogliersi davanti a me, diventare granelli di sabbia che scorrevano inarrestabili tra le mie dita inconsistenti. E mi lasciavi al buio, prima pieno di te. Mi sentivo sola e abbandonata. E allora ti disegnavo, ti desideravo di nuovo con me. E la tua immagine, che prima mi spaventava, ora riempie i miei schizzi, i miei dipinti e non riesco a fare a meno di pensarti. Che bella forma che hai, così semplice e spensierata. Un pallino grande che inghiotte, un pallino piccolo che osserva. Nero, rosso, giallo. Mille e mille volte. Con la ripetizione l’ossessione ti diventa amica. La accogli non ci devi più scappare. Ti ci senti chiusa dentro. 
Come se tutti noi fossimo rinchiusi in un pallino. Che poi in fondo non è così veramente?
E poi mi è venuta quell’idea, che forse mi ha aperto l’infinito, perché grazie a quell’idea oggi tutti sanno chi sono. 
È importante? Ancora non lo so.
Volevo rivestire di te il mondo. E l’ho fatto. Ti ho messo ovunque. Ho colorato persone di te. Ho predisposto stanze piene di te. E di me. In fondo non siamo che la stessa cosa, no?
Pallini ovunque, sfere di specchi che ci moltiplicano, che moltiplicano tutto ciò che abbiamo attorno. Tutto ciò che siamo, tutto ciò di cui abbiamo paura. Che poi non è lo stesso?
E poi che è successo? 
Non ho avuto più paura. E, come ho detto prima, mi sei diventata amica. Stringi qua la mano.
E con lo stesso meccanismo ho affrontato tutte le mie angosce e i traumi.


E ho riempito vasche e soffitti di peni. Si, di peni! Perché il pene mi ha sempre spaventato e terrorizzato. Così come il sesso e la sessualità. E adesso non mi spaventa più. Lo guardo da lontano mille volte ripetuto, grande, piccolo, e sorrido nel pensare a quanta paura mi abbia fatto nel passato. 
L’ho incontrato troppo presto e nella maniera sbagliata. E anche lì cercavo te. Speravo di trovare rifugio in te, mia ossessione, ma poi la visione di lui tornava e annientava il sollievo che in te traevo. E per un periodo tu eri diventata lui (il sesso, il pene) e lui te. Anche se io ti rivolevo come prima.
Mia madre, è stata lei a costringermi. Mi faceva seguire mio padre, gran traditore, nelle sue notti di gioia. E così, nascosta, chiusa in uno stanzino, spiavo in silenzio ogni passaggio ed ogni momento per riportare tutto a lei, maledetta, che di me alcuna cura aveva. 
Per giorni poi sognavo ripetutamente ciò che vedevo e quello è diventato il mostro nero nell’armadio. Ossessione nera. Che si è mangiata te, mia ossessione colorata.


Così ci ho provato. Come ho fatto con te. E ho messo il pene dappertutto, ripetuto mille volte. Per disinnescare, per risemantizzare. Decostruire e poi ricostruire ciò che nei miei ideali era così terrificante e terribile. Ma soprattutto per riavere te, che mi mancavi come l’aria.

Un esperto si sarebbe servito di me, mi avrebbe studiata, osservata e poi magari anche aiutata. Ne avrei avuto bisogno. Uno psicologo, un traumatologo. 
Qualcuno con -ologo oppure con -atra alla fine della propria qualificazione. 
Forse avrei risolto tante cose, ma forse avrei anche dovuto rinunciare a te, mia cara ossessione.
Ad ogni modo ai miei tempi di questi esperti non ne giravano molti soprattutto nel Giappone degli anni ’40, ma poi nemmeno nella New York degli anni ’60.
Solo tu e pochi altri sapete che sono sempre stata malata d’ angoscia, di paura, di dolore, e solo tu, e nessun altro, conosci il mio rimedio per sopravviverne. Solo tu sai che di te ho fatto arte. E solo l’arte dell’angoscia, della paura e del dolore mi mantengono in vita da sempre. 


E non è stato sempre facile, perché lei, maledetta, mi portava via da te. Mi strappava via l’arte che facevo di te. Mia madre, inadatta al ruolo materno. Severa e non comprensiva del mio malessere. 
A te mi strappava. E anche se mi chiudevo nel vivaio o mi nascondevo nella parte più lontana della piantagione a disegnare zucche su zucche (perché all’epoca quella era la tua prima faccia), lei mi scovava e violentemente mi allontanava da te. 
Ma io con te inizio. Perché con te inizia la mia arte. E io non sono che arte perché altro non ho. Lei non capiva. Nessuno capiva. 

E oggi, novantaseienne, sono qui da dieci anni, in questo ospedale dove volontariamente ho deciso di vivere per sottrarmi all’auto annullamento a cui andavo incontro giorno per giorno, e scrivo a te che mi hai maltrattato e spaventato ma anche protetto e salvato. 
Solo oggi mi accorgo che non ho mai amato nessuno come amo te, mia ossessione, mia arte. Me.”



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Ultrarosa II