Ultrarosa II
Ad ogni modo, erano gli anni ’40 e la nostra famiglia era ghettizzata ad Harlem, un quartiere di New York abitato praticamente solo da noi colorati; non poi così male… Negli altri posti rischiavamo la pelle per le botte (solo dopo capii che in realtà sarei stata predestinata a prendere una marea di botte nella vita a prescindere), ad Harlem pativamo solo il freddo e la fame. Però ci conoscevamo tutti ed eravamo una grande comunità bella colorata, in tutti i sensi della parola. Certo alcune vie era meglio non frequentarle. La prima pistola l’ho vista a 9 anni. A 13 il primo morto. Ma poi c’erano anche cose belle. C’erano il jazz e il blues. Le note sulle voci di Louis Amstrong e Ella Fitzgerald animavano ogni ritrovo, ogni bar, ogni festa. Fu in una di quelle che conobbi Kate. Era una donna matura, così dava a vedere, di portamento elegante. Corpo sottile, seno prosperoso, capelli voluminosi. Ero sicuro portasse una parrucca: nessuno mai avrebbe potuto avere così tanti capelli in natura, ma ne ero affascinato. Indossava i tacchi alti, molto alti, ma ci camminava sicura: niente lasciava trasparire difficoltà o mancanza di equilibrio. Rimasi qualche minuto a chiedermi come fosse possibile. Il vestito a payette era aderente al suo fisico ed evidenziava le forme giuste sia davanti che dietro.
Non mi ero mai innamorato prima di allora, ma la sensazione che provai la associai subito a quello: un misto di curiosità e ammirazione. Salì sul palco e cantò una canzone. Non mi ricordo nemmeno quale talmente ero incantato dalla sua figura.
Sembrava non avere paura di niente. Padroneggiava il palco e il microfono come un generale detta legge in un campo di battaglia: diretta, precisa. Aspettai tutta la sera che scendesse da quel palco per provare a parlarle e con mia sorpresa resistette lassù più di tre ore. Appena la vidi scendere mi gettai verso di lei e le chiesi se potessi offrirle qualcosa da bere. Rimasi stupito: tutta l’arroganza e la supponenza che mostrava davanti al sipario, appena finite le scale, si erano trasformate in tenera dolcezza. Mi destabilizzò. Kate accettò il mio invito, ma mi chiese se potessi aspettarla, aveva bisogno di cambiarsi. Qualche minuto dopo si presentò davanti a me una ragazza con i capelli lisci e fini, molto più bassa di me e vestita con abiti casual. Non la riconobbi subito.
“Eccomi qua!”. La mia faccia deve essere stata tremenda in quel momento – scusa Kate.
L’incanto era svanito in uno schiocco di dita ma non potevo tirarmi indietro, l’avevo invitata io.
Però quella sensazione avvolgente ed eccitante che avevo provato era scomparsa assieme al vestito a payette e al tacco dodici. La mezz’ora che passammo insieme durò molto di più delle tre ore di attesa. Kate, con mia grande sorpresa, non si era minimamente accorta che mi stessi tremendamente annoiando; infatti, senza nessun preavviso, mi prese e mi baciò. Il mio primo bacio, diciotto anni. Si, un po’ tardi, ma non avevo mai sentito lo scalpitante bisogno di quello scambio di saliva che a tutti sembrava piacere così tanto. Poco igienico.
Mi fece uno strano effetto lì per lì, né brutto né bello. Kate era comunque oggettivamente una bellissima ragazza, magari quella sensazione di farfalle nello stomaco provata all’inizio sarebbe tornata. La presi e provai a baciarla di nuovo. Lei mi strinse la mano e mi trascinò fuori in un vicolo. Era più grande di me, conosceva il fatto suo. Sapeva cosa voleva e questa cosa tornò ad affascinarmi, giusto per cinque secondi. Fino a quando, durante un interminabile bacio appiccicaticcio mise la mia mano sinistra tra le sue gambe e la destra sul suo seno sinistro. Provai una sensazione orribile. Forse non ero pronto. La spinsi via e scappai. Kate non la rividi più o, meglio, non con i miei panni da adolescente disorientato e impaurito. La rincontrai anni dopo, in un’altra vita, con altri panni. Lei ovviamente non mi riconobbe, ma mi fece molti complimenti. Fu un bell’incontro per me.
Non molto tempo dopo riconobbi le farfalle nello stomaco, le stesse che avevo provato con Kate. Non fu per un’altra persona. Fu per qualcosa di diverso. Una situazione. Una sensazione.
Adeline, tornata a casa una sera, mi trovò disperato sul letto. Quando mi chiese cosa fosse successo, non sapevo dare una spiegazione al mio malessere. Mi sentivo solo, così vuoto. Avevo trovato lavoro in un’officina poco distante da casa e aiutavo qualche signora con lavoretti casalinghi. Con lo studio non sono mai andato forte. Troppo distratto. Così avevo preferito darmi alle cose manuali. La mia vita era solo questo. Era quindi iniziato un periodo in cui ero sempre molto giù e lei se ne era accorta, ma da quando James aveva fatto capolino nel suo cuore, le nostre strade avevano iniziato ad allontanarsi. Lui era il tipico uomo tutto d’un pezzo che non capiva i maschi schiappa come me. Non approvava il nostro rapporto, sosteneva togliesse il tempo al loro. Adeline ne era troppo innamorata e io mi sono fatto da parte. Era giusto così. Ma le mie giornate iniziarono ad essere tremendamente buie. L’unica persona che poteva capirmi aveva chiuso la porta.
Solo quella sera la riaprì, appena per un paio d’ore, e senza saperlo mi illuminò di una luce che mi portai avanti per tutta la vita da quel momento in poi. Lei non accettò mai la strada che intrapresi, penso più per colpa di James che per suo volere. Ma questa è un’altra storia, troppo lunga.
Quella sera per rallegrarmi un po’ mi propose di tornare ad essere bambini e di travestirci come facevamo una volta. In casa non avevamo certo il repertorio che ci offriva la signorina Joody nel suo negozio, ma decidemmo di metterci l’uno i panni dell’altra, letteralmente. Lei prese la mia camicia a quadri rossa e verde e il mio gilet blu, i pantaloni beige e i mocassini appena comprati con la mancia della signora Klapis, nostra vicina, per averle sistemato la perdita che le aveva annacquato la cucina.
I vestiti che indossava Adeline invece erano succinti, tornava da un appuntamento con James. Una magliettina argentata che a lei stava larga, a me era super aderente. La gonna nera che a lei arrivava quasi alle caviglie, a me toccava appena le ginocchia. In più lavorando in un’officina mi ero ingrossato, tutto stringeva un po’ troppo. Ero leggermente a disagio, ma mi era tornato il sorriso. Anzi, la verità è che ridevamo come matti. “Adesso i tacchi”, mi disse per ridere ancora di più. Stranamente avevamo lo stesso numero. Lei era snella, piccolina e delicata, ma i suoi piedi erano cresciuti a dismisura per il suo corpicino minuto. Era sempre stata presa in giro in famiglia per questo.
Controvoglia presi le scarpe e me le infilai
“Contenta?”
“No, non ancora. Fammi una passerella ora.”
Mi alzai in piedi chiedendomi come facessero le donne a stare in equilibrio su quegli trampoli pericolanti. Ma mi ci volle poco ad accomodarmici. Iniziai ad atteggiarmi da sfilata per scherzare e mi si mosse qualcosa dentro. Qualcosa di strano. Forse era perché mi sentivo più alto di una spanna con quegli arnesi e mi davano un tono differente, più sicuro. Probabilmente anche Adeline si accorse della luce diversa che mi donavano perché rimase qualche secondo in silenzio, senza parole. Poi scoppiammo a ridere entrambi. Finì il travestimento truccandomi leggermente gli occhi e mettendomi il rossetto. Mi disse distrattamente che avrebbe voluto vedermi sempre così felice e radioso. Che dovevo imprimermi quel momento nella testa e in caso di pensieri brutti avrei dovuto ricordarmi quella sensazione lì. Fu una cosa che non mi scrollai mai di dosso. Né la sensazione, né quelle parole. Forse rimane il mio ricordo preferito. Mi sarebbe piaciuto che dietro a quelle parole ci fosse più consapevolezza da parte sua. Ma anche oggi continua a non capire…
Quella porta fu chiusa violentemente dall’arrivo di mio padre. Da una marea di botte, che, se mia sorella non fosse intervenuta dicendo che era un gioco che avevo acconsentito a fare per tirarle su il morale, sarebbe stata l’ultima porta chiusa della mia vita. Ma non era il momento. Ne avrei vissute tante altre, sbattute in faccia una dopo l’altra.
Quella notte capii tante cose di me. Capii che quella sensazione e quella gioia avrei voluto provarla ancora e ancora e ancora. Capii che avrei dovuto farlo nella maniera più discreta possibile per non farmi scoprire da mio padre e non dover più sopportare quello sguardo e quelle parole. Capii che non avrei trovato molta solidarietà. Pensai di avere vicino Adeline, mi sbagliavo. Ma non sapevo che avrei avuto vicino Beth poi più avanti.
Dopo tanti anni di sotterfugi, di serate illegali tra locali segreti e privé malmessi, nascosti, tra il ritmo della musica jazz e le voci passionali di giovani interpreti. Dopo balli liberatori, rivoluzionari, e amicizie vere. Dopo aver affrontato la dura faccia della verità ed essermi inimicata la mia famiglia, sono qua. Bella, raggiante, fiera. Oggi tutto avrà un senso. Sono la più bella di tutte e non c’è gara. Mi alzo, spruzzandomi ancora un soffio di profumo e parto a passo svelto verso il “velluto rosso”.
…
Mi hanno tradita anche qui. L’ennesima porta sbattuta in faccia.
Il fondotinta non è bastato. È tutta una presa in giro. Inizio a credere che un posto, una casa, per me non esista.
Lo specchio mi mostra il mio trucco sbavato all’angolo dell’occhio sinistro. Le lacrime da lì scendono nere. Non sono una pappamolle o una rammollita che si piange addosso, è rabbia quella che scende. Con il dorso della mano mi strappo via il rossetto.
Ecco, un cane rabbioso. Ma stavolta ho morso, non sono stata zitta. Ho smesso di essere muta da quando ho sputato in faccia a mio padre il mio vero nome, Crystall.
Ha vinto Rachel. Non se lo meritava. Ma è una “ball(room)” organizzata da bianchi: avrei dovuto aspettarmelo. Non si meritano una donna come me, un colore come il mio. Ho urlato contro di loro che non lo nasconderò più. Qui il compromesso si rompe: ho il diritto di mostrare il mio colore. Sono bella e so di esserlo! Questa rabbia mi immobilizza per un attimo davanti a questo specchio che ormai mi dà l’idea di muffa e l’odore che emana, d’un tratto, è stantio. Però sento che cresce qualcosa, una sensazione elettrica, non più mortificante. Mi guardo, dritta negli occhi, e questa volta mi faccio una promessa. Costruirò Io una mia casa, rivoluzionerò Io il mondo delle ballroom per le persone come me. Io sarò la madre di una House che ospiterà tutti i rinnegati e darò loro l’amore che solo una vera madre può dare. Quella che loro non hanno avuto. Quella che io non ho avuto.
– Crystall Labeija la madre della House Labeija – suona bene. Si, molto bene!
Liberamente ispirato alla storia di Crystal Labeija.