Ultrarosa I

New York, Manhattan 1967.

Il rossetto. Il rossetto è la parte finale di un make up. La parte più delicata. Più incisiva. Sbagliare il colore è un errore da principianti, ma ormai so bene qual è la mia palette. 
Nessun errore è permesso oggi. È un giorno troppo importante. 
Aspetto ancora un attimo prima di metterlo, così la vividezza dura più a lungo. Ho scelto il mio preferito. “Ultra rosa” dice la confezione. Con la mia carnagione di solito risulta sgargiante e attira l’attenzione.
Ahhhh! Non riesco più ad aspettare. Lo metto. Ho imparato a perfezione, guardando mia madre quelle rare volte in cui mio padre la portava fuori a cena. Bocca “a bacio”, si parte dalla parte superiore, dal centro, e poi si procede con quella inferiore. Non si arriva mai fino all’estremo laterale perché tanto poi si allinea tutto con quel movimento delicato di labbro contro labbro. Devo solo stare attenta a non compromettere le unghie, ci ho messo un’ora a applicarle. Sono dello stesso colore del rossetto ed ora che vedo l’abbinamento, mi compiaccio del mio gusto.
Qui, nel camerino, davanti allo specchio mi guardo e mi vedo bellissima. Capelli cotonati, trucco perfetto. Il vestito che ho scelto è radioso. Senza questa cipria così chiara che copre il reale colore della mia pelle starebbe ancora meglio. Ma la gara è questa. Per vincere, questo è il compromesso. 
Non credo di essermi mai vista più bella di oggi. Devo vincere per forza. 

Da ragazzo ho vissuto in una casa dove c’era poco amore. In quegli anni lì, tra una guerra e l’altra, non c’era spazio per simili smancerie. Ognuno badava a sé stesso e l’unico momento di ritrovo era la cena, seduti attorno alla tavola, tutti e otto: mamma, papà, Michael, Judy, Jane, Bethany, io e Adeline. 
Io e Adeline eravamo i più uniti della famiglia, ci davamo solo un anno di differenza, ma è come se fossimo stati gemelli, mentre gli altri erano più grandi di noi di cinque anni e più. 
Nostra madre era stanca, dopo sei figli chi non lo sarebbe stato. Quindi ci ha responsabilizzati da quando abbiamo iniziato a muovere i primi passi, l’uno nei confronti dell’altra. “Se uno dei due non torna saprò a chi dare la colpa...”. Più una minaccia che una responsabilizzazione. 
Nostro Padre sgobbava in fabbrica dalla mattina alla sera. “Appena torna a casa non deve volare una mosca… lo sapete cosa fa per voi, fate in modo che non se ne penta” diceva mamma ogni giorno. E chi l’ha mai disturbato quello. Il terrore di mia madre era palpabile. Temeva di doversi occupare di sei figli da sola. Non si è mai resa conto che lo stava già facendo. 
Noi obbedivamo e basta. Più si era invisibili e meglio era. 
Ah dimenticavo, c’era anche domenica in chiesa, tutti assieme. Assolutamente d’obbligo. Per lo meno così la vivevano gli altri, a me invece piaceva. Oddio, odiavo tutte quelle parole tristi e pesanti, ma subito dopo c’erano i canti! Ecco, cosa ha dato a noi colorati Dio: il canto. Ci ha tolto tante libertà, ma il canto, la musica e il ballo, no! Sono più adatte a noi, l’ho sempre pensato. I miei fratelli odiavano il mio entusiasmo per la messa della domenica e mentre cantavo con gli occhi pieni di gioia e le gambe che si muovevano a ritmo, loro mi maledicevano a braccia conserte, bisbigliando le parole di quelle canzoni di chiesa che tanto sdegnavano. 
Ma come fai a resistere alla musica, al battito del cuore che è un tutt’uno con le note, qualsiasi canzone sia, chiesa o non chiesa? 
Altri spazi di condivisione non c’erano. Abbiamo imparato a divertirci per conto nostro. A cercare qualcosa che ci scaldasse il cuore, in modo da non patire il freddo spigoloso e tagliente che faceva ammalare in tanti, di quei tempi. Michael amava la pallacanestro, stava sempre al campetto oltre la Terza strada. Se non tornava per cena tutti noi sapevamo dove andarlo a raccattare, anche se poi erano botte per lui. Judy stava sempre in compagnia, la sua bellezza le faceva da reputazione. Una colorata con gli occhi celesti suscita scalpore e tutti volevano facesse parte del loro gruppo. Non ci volle molto che trovò il gruppo sbagliato. Solo io me ne accorsi. Mia madre mi diceva che avevo una sensibilità particolare nel capire i comportamenti degli altri, ma in quel caso mi sembrava tutto fin troppo evidente: un piccolo livido sull’avambraccio, le risposte monosillabi, gli occhi strani e pesanti. Nessun ha mai notato nulla e io me lo sono tenuto per me. Chi fa la spia va all’inferno e con tutte le cose che dicevano di quel posto a messa, io col cavolo che ci volevo andare. A posteriori forse però avrei preferito l’inferno piuttosto che la morte di mia sorella. In parte è stata anche colpa mia. 
Jane, invece, si riscaldava con i libri. Soldi non c’erano ma la biblioteca pubblica era sempre aperta e per lei faceva pure gli straordinari. Cris Miller, l’uomo più anziano e saggio del quartiere e custode della biblioteca, l’aveva presa in simpatia. Sapevo che sarebbe finita a fare qualcosa di prestigioso prima o poi, peccato che nessuno abbia mai creduto fosse una strada adatta ad una donna colorata e alla fine si è accontentata di fare da moglie ad uno scienziato prestigioso. Che spreco. Beth era la ribelle della famiglia, quella che si è presa più botte di tutti. Anche lei molto intelligente e sensibile, ma di quell’intelligenza e di quella sensibilità che non si apprendono sui libri né si imparano a scuola, ma piuttosto che galleggiano già con te nel liquido embrionale come se tua madre avesse mangiato pane e lezioni di umanità con delle scaglie di leadership e coraggio. Mio padre cercava sempre di frenarla “chi è troppo spavaldo finisce male” (poi ho capito che chi non lo è affatto finisce anche peggio), però quando ho visto per la prima volta Beth in una rivolta, nella tv della vetrina del negozio di elettrodomestici del signor Thompson, ho avuto paura per lei e ho creduto a mio padre. Col tempo ho cambiato idea e lei è diventata la mia preferita. 

Io e Adeline invece ci scaldavamo a vicenda, giocavamo assieme per strada con gli altri bambini del quartiere e ogni tanto curiosavamo discretamente nelle vite dei nostri fratelli maggiori, immaginandoci segreti, complotti o amori impossibili. Ci inventavamo giochi solo nostri. Travestirci era il nostro preferito: potevamo essere chiunque volessimo. All’angolo tra la Quinta e l’Ottava, c’era il negozio di second hands della signorina Camille Joody – che donna deliziosa. Un giorno di freddo molto intenso finimmo per rintanarci proprio lì, un po’ per caso. Per farci riscaldare la signorina Joody ci trovò subito qualcosa da fare, “bisogna rimanere in movimento, forza bambini”, diceva, anche se sotto sotto era una donna molto pragmatica: appena riusciva a trovare mano d’opera, soprattutto se gratuita, la impegnava come meglio riusciva. Il negozio lo gestiva da sola quindi di cose da fare ce n’erano sempre a milioni. Prendemmo l’abitudine di andare lì tutti i giorni, e, in cambio di un posto caldo e colorato dove stare, aiutavamo il più possibile. Pian piano, la signorina Joody iniziò anche a darci qualche soldo, così, di nascosto da mamma e papà, raggiungevamo la Ventesima dove si trovava il negozio di caramelle del signor Jacobson. 
Al negozio della signorina Joody ci occupavamo di cose semplici, cose che possono svolgere anche un bambino di otto anni e una bambina di sette, ma Camille ci elogiava spesso dicendoci, divertita che, secondo lei, l’avevamo raggirata fin dall’inizio e in realtà eravamo due trentenni con problemi di crescita. Nemmeno suo marito l’aiutava bene quanto noi. Spazzavamo, riordinavamo e controllavamo gli indumenti, riponendoli con cura nei ripiani. Dopo un po’ di tempo, ad alcuni clienti, solo quelli meno serie e severi, la signorina Joody ci permetteva anche di dare dei consigli. Era molto bello percepire che apprezzassero le nostre considerazioni. 
Ma la parte più divertente arrivava quando non c’erano più clienti, verso ora di chiusura. Proprio lì la signorina Joody giocava con noi ai travestimenti. Potevamo usare qualunque indumento e decidere di essere chiunque volessimo. Era spettacolare. Era leggero. Era caldo. Era divertente. Era famiglia. Quando la signorina Joody si ammalò di tifo tutto si spense. In pochi mesi il negozio fu venduto e diventò una bottega d’antiquariato. Camille non la vedemmo più.  Mi manca quell’età. Mi manca la signorina Joody e mi manca Adeline. So che sta bene. La spio ancora di nascosto, spio tutti i miei fratelli, quelli che sono ancora vivi. A loro non credo importi molto cosa faccio io. Ma io li tengo d’occhio lo stesso. Beth è l’unica che mi parla ancora.

…to be continued

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