Chi sei, tu?
New York, anni ’80.
Aveva gli occhi piccoli, ma grandi. Grandissimi.
Di chi vuole mangiarti. Di chi vuole mangiarsi tutto.
Il giorno in cui la conobbi, lavoravo come truccatrice sul set di una campagna pubblicitaria a Manhattan. Doveva essere un servizio fotografico veloce. In un attico open-space luminoso, con ampie vetrate.
Erano solo tre modelle. Me la sbrigai facilmente con le altre due, due biondine acqua e sapone come già ne avevo viste a migliaia. Ma lei doveva ancora arrivare.
Nell’attesa mi accesi una sigaretta, mentre litigavo con il tappino di una lattina di soda. Venivo da una notte passata in bianco a litigare con Ted, il mio ragazzo, e volevo solo filarmela a casa il più in fretta possibile.
Cominciavo a innervosirmi.
Quando finii la sigaretta, dissi a Arvy, il fotografo, che se non fosse arrivata entro qualche minuto, avremmo iniziato senza di lei. Fu allora che comparì alle mie spalle.
Entrò nello studio come un cane randagio. Avvolta in una felpa grigia. Con un paio di occhiali da sole scuri che le coprivano il viso. Capelli scompigliati. Trasandata e trascurata. Nulla lasciava anche solo intuire che fosse venuta per essere fotografata.
L’assistente di camera, Joe, mi lanciò uno sguardo perplesso. Ma io lo vidi subito. Lo vidi subito che qualcosa in lei gridava.
Mi prese la lattina di soda dalle mani e la stappò con un coltellino da tasca, restituendomela solo dopo averne bevuto un sorso. Incurante e sfacciata. Fosse stata un'altra, l’avrei cacciata. Ma aveva qualcosa di magnetico. Passò accanto alle altre due senza battere ciglio. Non un gesto, non un accenno di saluto. Se ne andò dritta al trucco e si lasciò cadere sulla sedia. Fine dello spettacolo.
No. Era solo l’inizio.
Ero esterrefatta. Me ne stavo lì ferma, attonita, incapace di reagire. Ammaliata e confusa. Forse umiliata. Chi sei, tu?
Mi avvicinai. Risentita e curiosa insieme. In piedi alle sue spalle, con il suo volto riflesso nello specchio, aspettavo. Ma lei non dava alcun cenno. Impassibile. Forse annoiata. Non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso, ma lei non mi guardava. Non mi aveva ancora guardata. Insolente e maleducata.
Avevo già avuto a che fare con qualche diva. Ma lei non era nessuno. Non ancora, almeno.
Così, impugnai i manici della sedia e la ruotai verso di me. Faccia a faccia. Non mi importava del servizio fotografico. Volevo vedere chi ci fosse dietro a tutta quella esuberanza.
Le tolsi gli occhiali da sole. Lei mi lasciò fare. E solo quando le scoprii gli occhi, capii.
Erano gli occhi di un cane randagio. Piccoli, ma grandi. Grandissimi. Gli occhi di chi vuole mangiarti. Di chi vuole mangiarsi tutto. Chi sei, tu? Che ci fai qui sulla Terra?
Sembrava veramente un cane randagio. Uno di quelli che ha imparato ad azzannare prima di essere azzannato. Ma c’era una piccola luce nel suo sguardo. Forse, era incuriosita. Forse, era la prima volta che qualcuno la guardava. Che qualcuno la guardava davvero.
“Sono Linda”. Lo dissi quasi più a me stessa, come per riprendermi qualcosa. Lei lo capì e mi sorrise. “Sono Gia”.
Che avrei dovuto farci con tutta quella bellezza? Non sapevo averci a che fare. Come se sentissi di non c’entrare. Di non poterci entrare. Come se qualcosa mi tenesse fuori, lontano. In un punto impreciso, da cui potevo solo guardare. Contemplare. Ma non agire. Non fare. Era così impalpabile.
Fu Arvy a riportarmi sulla Terra. Era tutto pronto, mancava solo lei.
La truccai con diffidenza. Insicura e imprecisa come al mio primo lavoro. Di solito iniziavo sapendo già dove volevo arrivare. Mi bastava un’occhiata veloce e capivo. Ma con lei mi muovevo al buio. Aggiungevo e toglievo. Sporcavo e ripulivo.
A ogni pennellata, sentivo di rovinare qualcosa.
Quando finii di truccarla, raggiunse le altre due modelle. Arvy la mise in posa, ma lei non si lasciava mettere. Non stava dove doveva stare. Come la tazzina se ne sta sulla credenza, o il vaso sulla mensola. Lei mordeva e graffiava. Ringhiava. Un cane randagio. Se la trattenevi, moriva. Come un urlo soffocato.
Alle fine del servizio, Arvy era così rapito che ci chiese di restare per fare qualche altro scatto. Joe se la filò con una scusa, e le due modelle dietro di lui.
Ma lei no. Lei restò. E io con lei.
Fu quella notte che capii cos’era veramente in grado di fare davanti a una macchina fotografica.
In un attimo la ripulii dal trucco e le scompigliai i capelli. Era di nuovo sé stessa.
Nella stanza buia, illuminata da una luce soffusa, Arvy aveva posizionato solo una rete di ferro. Un set che avrebbe intimorito chiunque, ma non lei.
Come non aspettasse altro, si tolse i vestiti. Lo fece come fosse la cosa più naturale del mondo. Restò nuda, completamente nuda, lì in piedi di fronte a noi. Sfidante e trasgressiva. Lavoravo per la moda da tanti anni. C’ero abituata alla nudità. Ma nessuno, mai nessuno come lei. Mi sentii come se quelli nudi fossimo noi.
Impenetrabile e impalpabile. Sfidava l’obiettivo. Lo seduceva. Si muoveva sinuosamente, sensuale e ipnotica. E ogni volta che spingeva il corpo contro la rete, riuscivo a percepire il calore della sua pelle sul freddo del ferro.
Comandava lei. Decideva come farsi guardare. E io non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso.
Fu Arvy a farmi rinvenire, chiedendomi di posare con lei. Non era la prima volta. Arvy diceva che avevo tutte le carte in regola per essere una modella, ma che la mia era una bellezza onesta, e questo lo spaventava. Non ho mai capito che cosa intendesse.
Quella notte non ebbe niente a che vedere con tutte le altre.
Mi spogliai. Lo feci senza pensarci. Mi sentivo come una preda data in pasto al suo predatore. Solo la rete tra noi. Ma non avevo paura.
In quello studio silenzioso e buio, il tempo per un attimo si fermò con noi.
Ci guardavamo. Lei con i suoi occhi randagi. Come decidendo che farsene di me. Io con i miei occhi puliti. Troppo puliti per una come lei. E più la guardavo più la perdevo.
Eravamo due che si cercano, ma aspettano. Ché aspettare è per chi si vuole davvero. Ché l’attesa sta dentro al desiderio.
Arvy iniziò a scattare. E sotto quella pioggia di flash, invadenti ma distanti, noi ci guardavamo soltanto. Come due che sanno volere, ma non agire. Come due che fremono, ma non si prendono. Aspettavamo. Finché lei non aspettò più.
I nostri corpi nudi si toccarono. E l’impalpabile divenne pelle sudata e calda. Ventre contro ventre. Fianchi contro fianchi. Lei una mantide. Eccitante e seducente, pericolosa e mortale. Io un insetto nella sua ragnatela. Veleno e antidoto. Ma non avevo paura.
Si muoveva piano, studiando ogni mia curva, ogni mio angolo. Rubando un flash dietro l’altro. Il suo sguardo bucava l’obiettivo, e me.
Io immobile, la lasciavo fare. Ma dentro morivo.
Finché di colpo, mi prese il viso e mi tirò a sé. Tra le mie labbra e le sue, ancora solo il ferro della rete. Arvy non c’era più. Non c’erano più lo studio, le luci, la macchina fotografica. Era sparito tutto intorno a noi.
Mi accarezzò il labbro superiore con la punta della lingua. Delicata e dolce come non l’avevo ancora conosciuta. Chi sei, tu?
E allora mi arresi. Ero sua. Spinsi la lingua contro la sua e baciai quelle labbra come quando tanto si è aspettato e poi finalmente non si aspetta più.
Ci stavamo amando, ancora prima di poterci innamorare.
Liberamente ispirato alla storia di Gia Carangi.