Solo a pensare

1967

La sigaretta continua a fumare lì appoggiata a terra. La fisso e penso che non ho più voglia di finirla. Lascerò che si consumi lentamente. Proprio come sta succedendo a me dentro a queste quattro mura di due metri quadrati. Ma alla fine cos’è la vita stessa se non questo? Un lento consumarsi? Ogni minuto che passa, ogni secondo. 

Non posso scrivere il motivo per cui mi trovo rinchiuso qui dentro contro la mia volontà, mi legherebbero ad una brandina e userebbero il manganello contro tibie e caviglie per poi cospargere di sale le ferite inferte. Così fanno con chi la rischia. 
Quante urla… 
Posso solo dirvi che siamo in Grecia, sotto la gloriosa e p(re)otente Dittatura dei Colonnelli. 
Che io mi chiamo Gianni e che non sono altro che un poeta. 

Le uniche cose che non mi hanno tolto sono carta e penna. 
Non posso scrivere di me, di quello che sto passando. Non posso scrivere di quello che sta succedendo al mondo. Ne tanto meno di quello che sta succedendo al mio paese. E che me ne faccio di questa penna? Anche solo guardarla mi fa sentire vivo. Ma che spreco. Qualcosa devo trovare…

………………………………………………………………………………………………

ANTIGONE 
Il cielo scuro sopra il mio sguardo rievoca il sentire che ho dentro. Ogni nuvola porta con sé i miei lunghi pianti, ancora trattenuti, che sono pronti a provocare una fitta pioggia incessante. L’odore di marcio, qui fuori dalle mura della mia grande città, mi fa sentire sporca e traditrice. Ma è qui che devo essere. È qui che voglio essere. Per lui. Per salutarlo. Per dargli il giusto decoro. Per non lasciarlo solo in pasto a cani ed uccelli. Se mio padre potesse vedermi sarebbe fiero di me. 

Mio padre sventurato ha dovuto sopportare il peso di una profezia così potente e inevitabile. Per tutta la vita ha pensato di aver vinto. Di essere scampato all’oracolo. Nessun essere mortale vi era mai riuscito. Si è sentito più grande, più forte del volere divino… povero illuso! 
Dopo anni è venuto a conoscenza che invece la profezia si era avverata eccome, a sua insaputa: Edipo ha ucciso suo padre e sposato sua madre. Che amara sconfitta.
E così, come mio padre, mi sento incastrata in una profezia da nessun oracolo realmente espressa, ma pur sempre un’atroce agonia. Che immobilizza. Che stordisce. Non sono altro che questo le profezie. Un lugubre destino dal quale non si può scappare. E ci si sente inermi davanti all’andare della vita. Ogni passo e ogni strada portano solo lì, dove tutto è già stato deciso per te da qualcuno che non sei tu. 
E dopo la tragedia di mio padre, accecato dalla vergogna di ciò che ha subito, mi trovo qui a lottare per non rimaner cieca allo stesso suo modo. Senza arrendermi a quello che mi spetta per forza.
Io, donna, in un mondo maschio. Perché se l’ardore della fama e del potere che l’uomo brama non creassero conflitti stupidi e insensati, non sarei qui. 
Se Eteocle e Polinice, miei fratelli amati, non si fossero fatti guerra per regnare su Tebe, non sarebbero morti e non sarei costretta a piangerli. Io sorella, divisa tra l’amore dell’uno e dell’altro.
Faccia a faccia con un decreto ingiusto che decide chi, da morto, sia degno o meno di sepoltura. Ma chi lo decide? Screanzato sovrano, fratello di nostra madre, unico erede perché noi donne non possiamo governare. 
Ah… se potessimo! Ce lo impediscono, ma che potremmo fare di male? 
Re Creonte, bestemmiatore contro le onoranze funebri, leggi divine di giusto decoro per chi, dopo morto, merita una sepoltura dove farsi piangere. 
Ma io no, non diventerò cieca di vergogna per non aver lottato. Non sarò come Ismene, sorella mia, per timore devota con tacito assenso ad un potere superiore. 
Superiore a chi? A cosa? … che potere ha più importanza? Quello di un re o quello divino? 

“Ah Polinice, povero caro, che pazzia hai commesso nello scontrarti contro la tua stessa patria che toccava a te governare, dopo Eteocle impostore. In che posizione mi hai messo? 
Di nascosto devo venire qui fuori e spostare granello su granello per cospargerti di sabbia. Tumularti, per poter avere una dimensione dove vivere ancora con te, un luogo dove portare questi splendidi fiori, che mi ricordano te. Forti, colorati, ancora pieni di vita. 
A breve appassiranno come te, con te, ma almeno nel tuo lungo viaggio non sarai solo”. 

Ed ecco che la mia profezia si avvera. Stanno venendo a prendermi. Lo vedo il soldato, lì corazzato, in marcia verso di me. È inutile oppormi. La profezia questa è. Il destino uno solo. Ma continuerò i miei passi in direzione opposta a quella voluta per me. Non cederò. E quando sarò arrivata, non avrò vergogna.

FILOTTETE   

Dieci anni, dieci lunghi anni. Lasciato solo a pensare. Lasciato solo a morire

Maledetta quella vipera che, infame, mi ha infettato il piede, generandomi atroci sofferenze in alcun modo soffocabili.
Proprio lei mi ha distolto dal mio glorioso destino: la conquista di Troia. Non posso arrendermi all’idea che ora la mia sorte sia questa lugubre sciagura. Mi rifiuto di credere che gli dèi valorosi abbiano voluto questo per me. 
Cresciuto a suon di spade che si intrecciano, cresciuto a latte, archi e frecce. E mentre i capelli si allungavano, la barba si irrigidiva e gli organi genitali prendevano vita, si accumulava in me prestanza fisica, vigorosità e voglia di combattere. Tutto era pronto per la Gloria. L’unica e vera. Quella che ti rende immortale ai tuoi occhi e quelli degli altri. 
E fui valoroso nei primi combattimenti, e di stima e rispetto ne accumulai a fiotti. La mia reputazione si arricchiva. Contro chi combattevo? Non so! Non ero io a deciderlo. Altri più in alto sceglievano. Dèi o sovrani poco importava. Questo era il volere. Così stavano le cose. 

Ma ora, son dieci anni che penso. Son dieci anni che ricordo. E mi chiedo quanto da ragazzino fossi più sollevato nel sentire l’odore e il rumore del metallo o il suono delle danze e delle belle risate dei banchetti. Troppo pochi di quelli ne ho vissuti perché, spavaldo, non avevo paura alcuna della morte. E allo stesso tempo non sentivo il bisogno di vivermi la vita. E solo quel colore rosso scuro, e quel sudore congelato, e quel brivido pungente, mi davano quella pulsione. Adrenalina pura che sa di cervo selvaggio, che sa di cinghiale arrostito, che sa di nettare, che soddisfa ogni fame, ogni sete. 

Era così per davvero? O mi ero solo abituato a trasformare la paura che paralizza in ingenua e sconsiderata rincorsa verso quella Gloria che, ora, inizia a puzzarmi di marcio?

Ed eccomi qui, fermo, e la paura della morte si è presentata lenta e sinuosa giorno dopo giorno. Il sangue purulento del mio piede e della mia gamba infetta, come un metronomo, mi obbligano ad ascoltare il ticchettio del tempo che pian piano va avanti. 
Ma la mia vita è ferma, rinchiusa in una scatola piena di alberi verdi, uccelli e rumori scroscianti. 
Sembrerebbe il degno ristoro di un eroe glorioso, se non fosse che la battaglia che mi avrebbe reso Gloria eterna non l’ho neanche sfiorata. E dura anche essa da dieci anni. Troia è lì che ancora mi aspetta. Solo il vento trasporta con sé urla di morte, urla di vita, vittorie, sconfitte. Odore di corpi di guerrieri, sempre eretti, che con la loro fisicità e potenza camuffano l’orizzontalità perenne della morte che queste guerre portano con sé. Ombra oscura che li segue finché d’improvviso li raggiunge e li inghiotte.
Unica eredità alla quale non puoi sottrarti. Guerre che altri hanno iniziato per te. 
Rendono gli uomini schiavi di un volere che credono loro, ma non lo è di certo. E donne, a loro volta, inermi davanti a decisioni che le abbandonano a loro stesse. Ma la donna, così come l’uomo, va vissuta, va sentita, va accompagnata nella creazione e nella crescita di una nuova vita. 
Quante cose mi sto perdendo in mezzo a questo labirinto senza fine di brama, di fama, di obblighi e doveri che non ci appartengono. 

Ah, se oggi dovessi imbastire una guerra la condurrei contro i miei compagni screanzati che, come un sacco di immondizia, mi hanno gettato dalle navi e abbandonato su quest’isola in compagnia solo delle mie armi che non mi ricordano altro che battaglie che non potrò più affrontare. 
Dolorante mi lamentavo e toglievo loro il sonno, ma avessero accusato loro un tale dolore da non riuscire a trattenere i demoni interiori, io non li avrei abbandonati come animali sudici e rabbiosi. 

Ma poi penserei che tutto questo non ha senso. Che dopo dieci anni ho imparato a vivere in modo nuovo e diverso. A sopravvivere di pensieri e di piccole cose. 
Ma è vero? O me lo dico solo per non lasciarmi imbruttire dalla mancanza di vita vera? Dal peso dell’assenza di compagni, di mogli, di bambini? 
Ho imparato a bastarmi. O forse no? 
Disorientante è il peso del pensare in giornate vuote di un vero senso. 
Sto vivendo ancora? O mi sto lasciando morire…?

………………………………………………………………………………………………

Alla fine, qualcosa da scrivere l’ho trovato. E nelle parole di Antigone e di Filottete riecheggia il mio animo. Perché il Mito non è altro che esempio di vita, di comportamento, di situazione. Prototipo di uomini e di comportamenti umani. Io sono Antigone, io sono Filottete. Esseri umani incastrati in qualcosa non voluto da loro, non commesso. Rifiutati da un mondo plasmato per altri e non per loro. Non per donne che pensano di testa loro e che contrastano il volere ingiusto di un sovrano. Non per guerrieri zoppi e doloranti che hanno servito la propria terra e che poi sono stati buttati come scarpe usate ormai bucate e maleodoranti. Non per poeti che con belle parole cercano di dare un senso al Tutto di cui non si sa Niente e che sono scomodi per chi quel Tutto lo vuole far rimanere, per i molti, un Niente.
Sventurata sorte. Sventurata vita. Sventurata morte. Senza via d’uscita.


Avanti
Avanti

Ti lascio una poesia II