Ti lascio una poesia II
Il tempo passava, il nostro rapporto cresceva, non solo con prestazioni sessuali vere e proprie, ma nasceva pian piano una stima reciproca. Imparai a conoscere i suoi lati positivi e pieni di vita e a comprendere che ne nascondeva altrettanti negativi pieni di tenebre. Buttava un mucchio di polvere sotto un tappeto grosso, spesso, quasi ermetico. Diceva che invidiava la semplicità di noi giovani borgatari che in cambio di una buona colazione al bar raccontavamo tutti i nostri segreti più infimi senza porci alcun problema. Su al nord invece, diceva lui, più trattenevi e più eri una persona importante. La maggior parte delle cose che diceva non le capivo, troppo complicate! Per me era tutto molto più facile. C’era la vita semplice, libera da omertà e pudicizia oppure la vita complessa, piena di segreti, debiti e dolore. Ma da noi la seconda, era la vita da criminale non certo da borghesino del nord. Inizialmente pensavo facesse la vittima, tipico dei froci, come si diceva spesso. Poi iniziai a capirlo...
Era figlio di uno di quegli ufficiali tutte arie col doppio nome per dare una leggera aulicità al tutto. Un uomo severo e tutto d’un pezzo che aveva sposato le idee del Regime. Pà (così lo chiamavo io) era il primogenito e subiva molte pressioni dal padre, il quale si vergognava di avere un figlio poeta. Lui preferiva un uomo d’azione ad un uomo di testa. Così, puntò tutto sul secondo, d’animo più peperino. Poi però gli fu ucciso. Fu un grande trauma per Pà, gli era molto legato. Fu suo fratello l’unico a difenderlo davanti alle prese in giro della gente: ad ogni “oh busone” lui menava.
Pà odiava suo padre, odiava l’autorità che su di lui “doveva” avere. Rigettava la sua figura. Lui stesso ammetteva di non voler diventare padre per non assimilarsi al suo o ai padri in generale che nel senso comune dovevano avere un certo tipo di ruolo, che lui non si riconosceva addosso.
E poi, a Pà sono piaciuti gli uomini fin da che ne ha ricordo. Ne ha sempre parlato con molto imbarazzo, ma con me si sforzava: non voleva avere segreti – solo con me. Ma ogni volta che si andava a toccare uno di quei tasti grigi del suo passato contrattaccava immediatamente con un evento che gli riportasse allegria. Avevo capito che era terrorizzato dal pensiero di rimanere perso, incastrato, dentro i suoi dolori. Di non riuscire ad uscirne più. Solo con la poesia parlava con sé stesso; sincero, libero.
Alle volte è dentro di noi qualcosa (che tu sai bene, perché è la poesia).
Qualcosa di buio in cui si fa luminosa la vita: un pianto interno, una nostalgia gonfia di asciutte, pure lacrime.
Aveva il marcio dentro. Il dolore e le lacrime che tratteneva l’avevano scosso e sguarattato rivoltandogli gli organi interni. Era una persona attiva, vivace, decisa, interessata, ma dentro la sua anima era destinato ad un’esistenza triste, sola e insoddisfatta.
E allora, per sviare il discorso, divertito mi raccontava di quella volta che aveva rischiato di diventare padre. “Ah ma allora te la sei fatta ‘na femmina” gli cacciai.
Mi disse che tecnicamente era andata così, ma psicologicamente era tutta un’altra cosa.
Si trovava all’occupazione della Sapienza. Erano in tanti e dormivano con i sacchi a pelo in un’unica grande stanza. All’epoca era perso di questo ragazzetto, riccio per l’appunto, e formoso che stava proprio nel sacco a pelo davanti a lui con una ragazza e avevano iniziato a fare l’amore. Mi raccontò che inaspettatamente una ragazza entrò nel suo sacco a pelo e sentendolo eccitato prese a baciarlo e a farci l’amore. Quindi sì, aveva fatto l’amore con quella ragazza, ma guardava lui oltre le spalle di lei. Toccava i fianchi di lei e li sentiva muscolosi come si era immaginato quelli di lui. Le mordeva il collo tirato all’indietro mentre con gli occhi guardava le spalle increspate di lui. Annusava l’odore di lei e lo sentiva pungente come solo quello di un uomo sudato può essere. La prendeva da dietro e affondava il colpo esattamente come avrebbe fatto con lui.
La ragazza, poi, rimase incinta. Ma assieme decisero di non tenere il bambino. Lui non era interessato né a diventare padre, né a lei. Ridemmo tanto di quella storia.
Ma poi la verità, quella che sta al piano di sotto, nello scantinato dove nessuno vuole andare per paura dei ragni, è che lui non si perdonava di essere così.
Dopo alcuni suoi successi mi ricordo che disse: “per fortuna l’orgoglio di essere poeta è stato maggiore della vergogna di essere omosessuale”. Ne soffriva molto.
Quello era il motivo per cui era scappato dal nord. Lì insegnava, come aveva iniziato a fare anche qui da noi, e l’avevano accusato di intrattenersi con giovani ragazzi minorenni. Quella storia, vera o meno che fosse (non glielo chiesi mai perché parlarne gli toglieva la fame e gli cambiava l’umore), lo perseguitò per molto tempo prima che decidesse di venire qui. Era ridicolizzato in ogni situazione, insultato, perseguitato. Non era più vita la sua. Il padre si era chiuso in casa dalla vergogna. Il fratello, per fortuna, era già morto. La madre, con la quale aveva un rapporto potentissimo, non gli parlò per un paio di giorni. Poi per fortuna, almeno lei, lo perdonò, in silenzio, senza proferire parola, e lo seguì fino nella grande città, Roma. A lei, unica, perdonò l’averlo odiato.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Lui era paralizzato dal dolore suo personale e da quello che aveva provocato ad altri con quel suo essere, per la società, “sbagliato”, “malato”, ma non riusciva a farne a meno. Non gli piaceva porsi limiti. Sapeva di essere così, “e allora mi aspetterà l’inferno”. E non si era mai trattenuto nello sfogare i suoi istinti. Nel cercare sempre carne nuova che gli recasse piacere. Si innamorava anche, ma sapeva bene che quell’amore non aveva senso di essere. Così lo metteva in poesia. Aveva un vocabolario ricco e sublime. Le sue parole auliche e ricercate erotizzavano in maniera densa di passione il senso del suo amore poco compreso e poco corrisposto. Era questa la parte più bella di lui. Per quanto si vergognasse, doveva esprimerlo, doveva viverlo, doveva descriverlo. Era luce in questo.
Un giorno dovetti dirglielo. Lui lo sapeva che in fondo io non ero frocio. Non gliel’ho mai nascosto. Sapeva anche che da un po’ mi frequentavo con una ragazza di Roma bene. Grazie a Pà, ero cresciuto, ero più istruito e, con lui, ero finito a frequentare anche quella Roma che a noi poco era accessibile.
La conobbi ad una festa in cui mi portò proprio lui. Ero un po’ il suo trofeo in quegli ambienti. Era riuscito a farmi fare strada nel cinema, sua nuova passione, e mi portava sempre appresso a lui.
Lì la vidi. Era così bella, leggera, luminosa. Mentre Pà stava a parlare con i suoi amici intellettuali, feci il primo passo. Due parole appena, ma lui da lontano aveva già capito. Li frequentai entrambi per molto tempo. Lei mi faceva impazzire, l’amavo più di ogni altra cosa. Lui mi trattava come un re, lo stimavo e amavo come mi faceva sentire, la luce che riusciva a tirarmi fuori.
Però arrivò il giorno. Volevo sposarla. Finché le due frequentazioni andavano avanti assieme a Pà bastava avermi anche per il poco tempo che gli concedevo. Tanto lui era sempre impegnato. Ma quando gli comunicai che avrei sposato quella donna perché ne ero perdutamente innamorato e che non avrei più continuato a giacere con lui, di colpo si spense. E non fu più come prima. Ogni volta che incontrava lei, la insultava e la malediceva. E quando io andavo per rimproverarlo lui tirava fuori le sue poesie per farmi capire come si sentiva: gli avevo tolto tutto.
Voleva spiegarmi che un vuoto invadente e profondo lo aveva investito inaspettatamente. Per colpa mia. Per l’amore che provava per me.
Sono uno straccio d’uomo, che dovrà ritrovare il suo orgoglio, in qualche modo:
ma non c’è al mondo indifferenza o pietà che vi possano far dimenticare come il nodo
(giusto) alla gola si sia (alla mia età) sciolto in pianto.
Si dice che si odia colui a cui si fa del male.
Forse varrà ciò anche per voi.
Più leggevo sue poesie, più sentivo il male che provava, il male che gli facevo. Non potevamo continuare così. Una sera gli comunicai che quella sarebbe stata l’ultima volta che ci saremmo visti. Gli dissi che lo facevo per lui. E più comprendeva le mie parole più tremava per il dolore lancinante di quella perdita definitiva. Mi chiese un’ultima camminata e mi portò lungo il Tevere, dove ci eravamo persi nel tempo a chiacchierare la prima volta che volle conoscermi. Ce ne stavamo zitti, passo dopo passo. Eravamo entrambi malinconici e dispiaciuti. D’un tratto tirò fuori il portafoglio. Pensai volesse togliersi un ultimo sfizio. Glielo avrei concesso. E invece tirò fuori una carta tutta piegata. “no, n’altra poesia nun la reggo” gli dissi diretto, senza giri di parole. Ma lui insistette. Era la prima cosa che aveva scritto su di me, proprio il giorno di quel primo incontro. Senza conoscermi, senza sapere chi fossi.
Io per me vorrei poter sapere quali sono i congegni del suo cuore attraverso i quali Trastevere vive dentro di lui. Informe. Martellante. Ozioso. I suoi due occhi sono come due suggelli. Due ceralacche nere, impresse sul grigio del viso dove non c’è luce che emerga dall’interno. Largamente compensata, del resto, da quella esteriore del cielo di Roma. Il suo cuore è come una tenia che digerisca in un istante milioni di grida, sospiri, sorrisi ed esclamazioni. Che abbia digerito, senza che il suo possessore se ne rendesse mai conto e ne usufruisse, un’intera generazione di coetanei. Poco più che Creta, poco meno che Apolli. Dietro di lui il Tevere è un abisso disegnato su una carta velina.
Me la lesse e poi la lasciò cadere a terra. Si girò e tornò da dove eravamo venuti. Senza girarsi, senza dire una parola.
Stavolta sapeva che non l’avrei seguito.
Presi la poesia. Me la strinsi al petto e mi misi a piangere come quel ragazzino trasognato, senza obiettivi e ambizioni. Mi ricordai da dove ero partito e dove, con lui che mi aveva cresciuto come padre, come fratello maggiore, come amante, ero arrivato.
Non lo vidi più.
“Pà, eccomi qui. Mi sono preso un attimo. Un secondo soltanto. Il tempo poco più di un respiro, per salutarti in intimità. Solo io e te. Tutti sono venuti in questo triste giorno a farti un saluto, caro compare. Alla fine, ce n’è di gente che ti vuole bene. Forse non lo avresti mai detto tu, cinico come sei. Le piazze piene. Le strade pure. Quelli a te più cari tenevano il legno rigido e freddo che è ora tua casa eterna. Il più vivido ricordo che mi rimane impresso è il tuo viso spento, svuotato, di quel giorno lungo il Tevere.
Il mio stomaco si torce all’immagine del tuo corpo tumefatto ritrovato all’idroscalo. Del tuo sangue sparpagliato, del tuo viso calpestato. Che ti hanno fatto!?
Come dicevi tu gli eroi greci classici, tuoi idoli e tue aspirazioni, preferivano l’onore alla vecchiaia. Penso tu fossi loro incarnazione. Ma lasciati dire che la tua era una battaglia ad armi impari. Loro cinque o sei, chi lo sa. Tu da solo. Chi era con te in quel momento non è riuscito a salvarti. Forse era bloccato, terrorizzato. Io avrei fatto di più per te. Magari sarei finito come te, ma te lo dovevo.
Eri uno scomodo intellettuale che voleva stare dalla parte del vero. Ma, come sostenevi tu, tra i borghesi il vero va nascosto, è sconveniente. Con i tuoi libri e con i tuoi film hai raccontato verità taciute con fierezza. E poi ti piacevano gli uomini: mai dimenticarlo. Qualcuno ti avrà anche avvisato che te la rischiavi. Se ti fossi stato vicino, io lo avrei fatto. Ma immagino anche quale sarebbe stata la tua risposta. “Aaa Riccetto, fatti un giro che qui ci occupiamo della vita vera! Io nella paura non ci vivo!” cercando di imitare a casaccio il nostro modo di parlare. Ma Pà, se avessi avuto anche solo un po’ di paura in più oggi potrei tornare ad abbracciarti, a parlarti, a ringraziarti. Mi sono accorto di non averlo mai fatto per davvero. Spero tu l’abbia letto nei miei occhi.
Ti lascio un’ultima poesia. La mia unica. A te, poeta maledetto. Nel dialetto che hai sempre invidiato.
Ma pecché er core mio nun po’ scoddarte,
pure se ‘a vita prosegue!?
Ar foro la luce s’è stinta
Co ‘a morte tua ‘a verità nun ha speranza.
Er core soffre, a pace stringe (a quiete accarezza)
E cossì stò, ne ‘n abbraccio tuo voto
T’ho amato. De ‘n amor’ che nun se po’ capì.
Tuo, Riccetto.”
Ma perché il mio cuore non può dimenticarti,
anche se la vita va avanti!?
Sulla scena la luce si è spenta,
con la tua morte la realtà abbandona la speranza.
Il cuore soffre, il silenzio abbraccia.
E così resto, in un tuo abbraccio vuoto,
Ti ho amato. Di un amore che non si può capire.