Ti lascio una poesia I

1975.

Non avrei mai pensato di trovarmi qui così presto. Sapevo sarebbe arrivato il momento prima o poi. Ma non doveva essere ora. 

Questo posto così freddo, gelido, così silenzioso, anonimo, non è adatto alla sua età. Il colore di questo legno non è compatibile con la sua forza e con la sua vitalità. Questo odore d’incenso non è associabile alla sua figura storta e cinica. 
È successo troppo presto. Avrebbe dovuto ingobbirsi ancora un po’. Avrebbe dovuto essere più canuto. Meno lucido di testa. Avere il volto rigato dal vento del tempo. Avrebbe dovuto vederci meno e sentirci a stento. Avrebbe dovuto far fatica a camminare, a mangiare. E invece no. È ancora forte e possente in questo suo abitino ben stirato e accomodante. Il suo fisico è atletico, esattamente come l’ho lasciato, cinque anni fa. Ci teneva a rimanere in forma. Curava il suo aspetto con una perfezione ossessiva, quasi tossica. 
Adulto? Mai! Come l’esistenza che non matura e resta sempre acerba!”. C’è riuscito. Ma in molti avremmo preferito altro. Ora il suo volto raggelato mostra una calma che non credo gli sia mai appartenuta. Questo non è lui, è solo immagine di lui. Le sue mani grandi ora sono pallide lungo i fianchi. Fredde al tatto, non ricordano quelle di uno scrittore che muovendole col suo pennino mostrava tutta la sua sensualità e la sua passione. Quelle mani hanno toccato anche me con forza e decisione, mentre nascondevano un amore lontano e diverso da quello che di questi tempi si può immaginare. Io non ero innamorato di lui, ma terribilmente affascinato. Era una sorta di amore anche quello, forse ancora più grande. Comprende stima, devozione. Comprende frustrazione e compassione. Quest’uomo che qui giace non dimostra altro che, quando tutto finisce, non siamo più niente di fronte ad una vita che continua ad andare. Mentre lui no, s’è fermato. Le sue vene non hanno più colore, il suo alito non appanna alcun finestrino. 
Rimarrà tra noi a lungo. Non perché ha vinto battaglie, non perché ha guidato governi. Ma perché è stato uomo. Uomo che ama. Uomo che sbaglia. Uomo che apre il suo cuore a vergogne poco comprese. Uomo che usa parole ammalianti, ma anche perturbanti, per esprimere concetti, pensieri, prima inespressi. Uomo di coraggio. Uomo di valore. Un uomo che sempre abiterà parte della mia anima.

La prima volta che sentii parlare di lui, negli anni ’50, fu dalla bocca di Mario, er Bananaro, un burino del quartiere. Come tutti noi del resto. Si vantava di aver derubato un “frocetto” altolocato due giorni addietro, ma che poi quell’uomo tutto ringhingherato lo aveva rintracciato e aveva preferito godere della sua compagnia piuttosto che denunciarlo o chiedere un risarcimento. Non era una cosa così comune. Soprattutto da quelli che provenivano dal nord. Almeno così diceva Mario: che veniva dal nord. Lui lo chiamava P.P.P. e più di queste tre lettere e della sua apparente bontà d’animo non sapevamo altro. Mario continuava a dire che, se mai lo avessimo incontrato, lo avremmo riconosciuto di sicuro, ma questo fantomatico P.P.P. sembrava più un fantasma inventato dal Bananaro per fare caciara. Uscivano sempre le stesse storie di soldi ricevuti in cambio di qualche lavoretto di mano o di bocca, ma del P.P.P. in carne e ossa non c’era traccia. Qualche altro ragazzo si è poi aggiunto alle parole di Mario, ma sembrava più per fargli eco, ricompensato sottobanco, che per altro. Avevo finito per credere che quella figura impettita e misteriosa non esistesse affatto. Di storie se ne inventavano tante per dare aria alla bocca di quei tempi, non c’era poi molto altro da fare per distrarsi dalla fame.


All’epoca, non era uno scandalo questo “lavoretto” con cui ci occupavamo le giornate noi giovani borgatari. Tutti, nel quartiere, sapevano. Gli altolocati non se ne interessavano. Non serviva nemmeno nascondersi più di tanto. Era sicuramente qualcosa di peccaminoso e anormale per quelli al di sopra del Po. Ma che ne volevano sapere loro della miseria tiranna a cui eravamo costretti. Ci avevano isolati nello squallore, nella povertà e nella criminalità. Ma alla fine era proprio questo lo scopo delle borgate romane: isolare i poracci e lasciarli a morì nella loro merda. Così il Regime ci trattava per non infangare la faccia della medaglia che, intanto, stava lustrando ad hoc allo scopo di dare all’Italia un aspetto nuovo, migliore, dopo il terribile disastro della prima Grande Guerra. Ma anche dopo la seconda, ancora più disastrosa, la nostra situazione rimase invariata. Il Regime, o dovrei dire ciò che ne rimaneva, continuava a girare lo sguardo dalla parte opposta alla nostra e a non occuparsi delle nostre condizioni. E noi ci arrangiavamo a modo nostro. Nulla era deplorevole se ti portava ad avere qualcosa sotto i denti. Nessun giudizio, nessun senso di colpa. 

Quando effettivamente lo conobbi, questo P.P.P., notai che era molto interessato a noi e al nostro modo di vivere. Sembravano brillargli gli occhi. Scoprii poi che per lui le borgate avevano un fascino particolare. Gli hanno ridato una gioia che cercava da tempo. Autenticità, freschezza, intimità, poche difese – così ci descriveva sempre. In tanti dicevano che, in realtà, non ci capiva fino in fondo, altrimenti avrebbe fatto qualcosa di più di mettere nero su bianco qualche racconto, o qualche poesia, su di noi. Ma non credo di essere completamente d’accordo.
Quando lo vidi per la prima volta, come aveva detto er Bananaro, lo riconobbi senza problemi. Chi mai si presenterebbe in giacca e camicia sotto il sole cocente nel putridume delle borgate? Solo lui! O meglio, solo lui che chiedeva a gran voce di Mario. Ero incuriosito e volevo capire chi fosse, così mi avvicinai e gli dissi che Mario non era disponibile. Lui si girò senza aggiungere altro, si incamminò e mi disse “vieni, accompagnami tu” con quella voce puerile che lo contraddistingueva. Non si voltò nemmeno un secondo per vedere se avevo acconsentito alla richiesta e se mi ero messo in marcia dietro di lui: sapeva che lo avrei fatto. E fu quella sicurezza a invadermi le gambe e a farle muovere verso la sua stessa direzione. 
Senza parlare camminammo per svariati minuti. Ero solo qualche passo dietro di lui, ma studiavo la sua mascella squadrata, le sue fossette scavate lungo le guance e i suoi capelli scuri ben pettinati. Teneva le mani in tasca e aveva un passo deciso. Anche il mento era pronunciato e solo quando si girò e mi sorrise vidi il solco che glielo divideva a metà. Inizialmente mi indisponeva la sua figura, ma mi veniva da guardarlo, senza abbassare lo sguardo. Passammo tutto il pomeriggio a parlare tranquillamente del più e del meno. Aveva una voce calma, sofisticata. La definirei “non virile” – come si usava a quei tempi – adatta a chi c’ha un po’ di donna dentro: un frocio insomma. Le vocali le aveva aperte, tipiche dell’accento Emiliano, e infatti disse di essere di Bologna. Mentre parlava con termini ricercati e misteriosi alle mie giovani e ignoranti orecchie, mi chiedevo come ci fosse finito in questo bordello un uomo di tale portamento e come facesse ad essere attratto solo dagli uomini: il fascino che destava in me avrebbe sciupato tante di quelle femmine. 
D’improvviso mi accorsi che s’era fatto tardi, così con una domanda diretta gli dissi: “che devo fa? E quanto me paghi?”. All’epoca avevo i capelli corti e ricci. Me lo disse subito che aveva un debole per i ricciolini. Me li scosse come fa un fratello maggiore perché intenerito dall’innocenza del fratellino. Mi mise in mano duemila lire e se ne andò esattamente come era arrivato: girandosi e incamminandosi senza parlare. 
Tornò tutti i giorni e i lavori di mano e di bocca poi glieli feci davvero, sotto buone ricompense, ma mi rimase sempre impresso quel primo giorno. Voleva conoscermi. Forse voleva capire se fossi il degno sostituto di Mario. Lo fui! Del Bananaro non chiese più: ormai aveva in testa solo il Riccetto.

… to be continued

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