Uccidimi
Trigger warning: violenza, tortura
1944.
Son due ore che sono ferma in piedi, davanti a questo tizio con la faccia da cazzo che, seduto bello comodo con i piedi sulla sua scrivania, mi tira occhiatacce mentre parla in tedesco alla cornetta.
Non mi aspettavo quell’imboscata. Cazzo, se avessi avuto anche la minima sensazione che potesse esserci quel rischio avrei preso la pistola che mi tenevo dentro il reggiseno e al momento giusto mi sarei piantata un colpo in testa. Meglio morta che torturata – era il mio motto da quando avevo preso parte alla Resistenza e così avevo quell’arma sempre appresso. I compagni credevano fossi una tosta, pronta a difendermi a suon di proiettili. Poveri illusi, come se una singola M34 avesse potuto fare qualcosa contro le loro mitragliette. Preferivo difendermi a modo mio e quella fine autoindotta era l’unica via per non incappare in qualcosa di molto peggiore della morte stessa.
Ma niente, mi hanno presa alla sprovvista…
Pedalavo sul sentiero che univa i nostri covi nascosti alla città più vicina. Appena arrivata all’inizio della strada asfaltata, sono scesa dalla bicicletta per nasconderla e proseguire a piedi. In città ormai le biciclette erano state bandite. Sapevano che noi staffette ci nascondevamo dentro munizioni, polvere da sparo, corrispondenze varie… Quindi nessuno poteva circolare con quel mezzo. Ormai dovevamo arrangiarci in altri modi.
Non c’era nessuno in vista, ma non feci a tempo a mollare la bicicletta che mi presero da dietro e mi costrinsero con la forza contro un albero. L’impatto mi fece saltare via di dosso la pistola che per fortuna si mimetizzò alla perfezione tra l’erba alta, così non se ne accorsero. Iniziarono a perquisirmi.
Questa volta non portavo niente, dovevo solo recuperare cose dalla città. A parte l’agitazione del momento, ero sicura non avrebbero trovato nulla e che mi avrebbero lasciata andare.
Quel maledetto proiettile. Uno solo. Rimasto incastrato nella parte più profonda dell’intercapedine del manubrio. Nessuno di noi se ne era reso conto il giorno prima contando le munizioni arrivate dal paese. Errore fatale. Quando si sfilò e rimbalzò per terra, i miei occhi si spalancarono dallo stupore e mi mancò il fiato. Le gambe cedettero all’improvviso e dovettero tirarmi su di forza per portarmi via.
E ora sono qui. Mi tortureranno, per estrapolarmi nomi e luoghi. Vogliono prenderci e ucciderci tutti. Devo resistere 24 ore. Questo è il tetto massimo. Così gli altri capiscono che mi hanno preso e se ne vanno dai nascondigli che conosco. Solo dopo 24 ore posso cedere e dire ciò che voglio. Di nomi conosciamo solo quelli di battaglia. Tutti inventati, così che non riescano mai ad identificarci, anche quando per sfinimento la gente parla. È una precauzione. Io per tutti sono Sandra e da quando tutto questo è iniziato non conosco per me altro nome che quello.
Mi hanno chiusa in una stanza buia nella quale entra solo un filo di luce da una finestrella in alto (forse siamo sotto al livello del terreno – non lo so, sono disorientata). Mi ci avvicino ed espongo al chiarore i miei polsi che hanno, evidenti, i segni delle manette, che prima o poi si trasformeranno in lividi. Ho sempre avuto la pelle delicata. Me li sfrego un po' con le mani per cercare di alleviare il fastidio. Così mi hanno insegnato a chiamarlo: fastidio, perché prima o poi se ne va. Il dolore invece è consistente e rimane. Grazie a questo pensiero tante ferite e sbucciature si sono rimarginate molto più velocemente in passato. E così cerco di convincermi che anche quello che succederà sarà solo un fastidio…
Sento questo odore ferroso che mi impregna le narici. Non è per niente piacevole, né rassicurante. Chissà quanti prima di me. Chissà quanti come me. Chissà. Forse meglio non pensarci. Ma come si fa a non pensare in questo silenzio. In questo battito del cuore allarmato e pieno di terrore. In questo respiro affannoso e scomposto. Forse, invece, è meglio pensare. Ma a cosa? Al tempo che non passa. Vorrei già cedere, anche se ancora non mi è capitato niente di che. O preferirei iniziasse quello che deve. Così da fermare il terribile e incessante senso di ansia e di attesa che già nella quotidianità sembra essere così ingestibile, ma ora, qui, è molto peggio: paralizzante. Come potrei mai sapere, poi, quante ore sono passate? Quanto ancora devo resistere!?
Entrano in tre. In due mi siedono sull’unica sedia visibile davanti ad un tavolo, attaccato alla parete opposta alla fonte di luce. L’altro si siede davanti a me. Lì, in penombra, non riesco a distinguere i connotati dell’uomo che avrà il mio sangue tra le dita. Non lo vedo. Ne sento solo la voce. Un timbro marcato del nord d’Italia. Mi fa le prime solite domande di rito: come ti chiami e da dove vieni. Già al nome Sandra mi prendo la prima sberla che mi butta per terra, giù dalla sedia. Sanno che non è il mio vero nome. I due uomini alle mie spalle non muovono un muscolo. Sono lì, fermi impalati che si godono, sadici, lo spettacolo. Mi rialzo, incitata a darmi una mossa, e decido di non rispondere più ad alcuna domanda. Il tono di voce dell’uomo senza volto si fa più serio e minaccioso. Io rimango impassibile. “L’hai voluto tu” – so già che questa frase d’ora in avanti mi tormenterà negli incubi peggiori. Sento i due manichini dietro di me finalmente muoversi. Mi tirano su di forza e mi mettono nuovamente le manette, poi le fissano su un gancio che scende dal soffitto addossato alla terza parete. L’uomo senza volto è uscito dalla porta per pochi secondi… Con la coda dell’occhio lo vedo rientrare. Trascina una cintura che fa uno strano rumore tintinnante al contatto col terreno. Forse posso sopportare qualche frustata... Ma quelli che tintinnano sono chiodi attaccati alla fibbia. Il braccio si alza, l’aria si muove. Il battito aumenta. Il colpo si assesta, dritto, sulla schiena che si inarca. Il respiro manca di colpo. È lancinante l’acuto del male. Non riesco più a respirare. Esce il cuore dalla gola seguito da altri organi interni. Il corpo cerca la reazione come quando da piccoli a contatto con il dolore o ci si ritrae di fretta o si cerca di infliggere lo stesso dolore di reazione. Mi è impossibile l’una e l’altra cosa. Non posso ritrarmi. Non posso controbattere.
Ne arriva un’altra e dalla bocca sono usciti, stavolta, i polmoni e con essi tutti i bei ricordi di libertà. Mi sento morire e vorrei accadesse in fretta. O almeno svenire per avere più tempo tra una frustata e l’altra. Alla terza iniziano a scendere le lacrime, decise e potenti. Iniziano le suppliche sibilate con quel poco di fiato che ancora mi resta. Invoco mia madre, che mi venga a coccolare come quando da piccola sognavo i mostri nell’armadio. Invoco mio padre che mi protegga come quella volta con quel ragazzaccio che mi importunava. Ma invoco gente morta. Uccisa da grandi meschinità mascherate da governi bonari a cui importa solo del popolo. Ma la verità è che l’ambizione ha tolto l’umanità a questo Paese, a questo mondo infame.
Sono già morta anche io stessa. Figlia di una guerra che non volevo fare. Che volevo fermare. Ma a che costo? Questo?
Interpello l’uomo senza volto “Uccidimi!”. Quello si ferma e rimango lì a penzolare. “A domani” mi dice. Sento il sorriso formarsi sul suo volto anche se non lo vedo, ma non mi importa più niente.
Il fastidio è scomparso. È solo dolore quello che sento. Il dolore di un corpo trafitto fino in fondo negli ideali, spazzati via in mezzo secondo. Non se ne andrà mai più: consistente, rimarrà per sempre. Se avessi saputo il nome di ognuno di quelli al mio fianco li avrei urlati con forza per far cessare tutto questo. Subito, già alla prima frustata. Ma io non li so e non li saprò nemmeno domani. Spero di morire domani. O magari nella notte. Lo spero davvero. I due manichini ora mi liberano dal gancio ridendo, “te la sei cercata eroina dei miei coglioni”. Cado a peso morto. Mi lasciano sola chiudendosi la porta alle spalle. Sento il sangue che scivola. Un rigolo fino alle caviglie. Non riesco a muovermi, se non per poggiare la schiena al pavimento. Il freddo umidiccio di quella lurida superficie mi dà sollievo in quel lago rosso che annega la stanza.