Tic-tac, tic-tac
“godendomi l’ansia di leggere e pensare,
mentre alle mie spalle c’è sempre il tic-tac che mi deride:
Una Vita Sta Passando. La Mia Vita.”
Che cosa farne di questa cosa che è la vita? Come rientrarci dentro, una volta che ne sei uscita?
Vedo omini di latta brancolare nella luce del giorno. Vedo falene lottare mai stanche contro i lampioni nella notte. E io mi sento altro. Altro da loro, altro da me. Chi sono?
So chi vorrei essere. Vorrei essere una marionetta o una bambola di pezza. Vorrei dei fili agganciati alle mie estremità. E qualcuno che li muova e mi conduca nella vita. E mi faccia fare quello che c’è da fare. E dire quello che c’è da dire. E poi basta.
Morire così. Da marionetta o bambola di pezza. Avendo fatto quello che c’era da fare. E avendo detto quello che c’era da dire. Ma per mano d’altri.
Senza il fardello della scelta. Senza coscienza.
Questa vita così grande. Immensa. Che farne?
Ah, è così impensabile vivere. Impensabile. Non la puoi pensare la vita. La devi fare e basta. Perché se la pensi è già finita. Se solo inizi a pensarla: tic-tac, tic-tac. È già passata. È già passata via.
Allora, voglio essere una cosa. Inerme, ferma. Una cosa accanto alla vita. Sospinta, appena, come una bollicina d’aria a sfioro sull’acqua. Leggera. Persa. Una virgola nell’infinito.
Ma poi l’anima si ribella.
Scaraventata fuori, sto. Osservatrice attonita del tempo che scorre. Passiva, passante, passabile. Appassita.
Un petalo nel fango.
Che cosa voglio davvero? Voglio e non voglio. Non voglio nulla e voglio tutto. Forse, non posso. Non sto più. Galleggio.
Galleggio a pancia in giù. Col viso annegato. Soffocato. E ho come l’oceano tutto, sotto di me, che mi preme contro. Lo sento addosso. Sul viso affogato. Grave, poi lieve, poi di nuovo grave. Un’onda che si ritira, solo per tornare con più forza. Veemente, aggressiva. Uno schiaffo.
Come lo reggo il peso del mondo? Come lo reggo il peso della vita?
Mi astengo.
E nel tepore dell’astensione, respiro. Finalmente, respiro.
Ma una vita passa, una vita sta passando: la mia vita.
Mi piace immaginarmi fatta e finita: una moglie, una madre.
Forse è questo che voglio? Carne da macello per marito e figli, cannibali al banchetto della mia esistenza. Matrona del focolare domestico. Regina nel mio feretro. Sarei felice? Mi chiedo. Non me lo chiedo, e lo sono. Sarei felice perché saprei chi sono. A che servo. Nient’altro. Nutrire. Nutrire altri, e non me. Dare, dare, dare. Darsi, fino allo stremo. Fino allo scheletro. Azzannata, divorata. Senza più carne, senza più sangue.
Un mucchio d’ossa, buttate in un angolo. Ma almeno felice?
Felice, sì. Avrei fatto quello che c’era da fare, e avrei detto quello che c’era da dire, – nulla.
E dentro al nulla, guardo alla vita con curiosità. E invidia. Come si guarda a una cosa d’altri, non tua. Mai tua. Come si guarda a una cosa quadrata, ma si è tondi.
La morte. La morte è cosa mia più della vita. Il vuoto mi chiama. Mi afferra, mi trascina. E sento che siamo vicini, affini. Mi hanno fatta per la morte. Nasco per morire. Traghettata da una sponda all’altra, senza godimento. Niente amore, nessuna passione.
Ah, come sarebbe gentile. Come sarebbe gentile la mano dell’altro qui nel fango. Come sarebbe vorace l’afferrarla. Stringerla, trattenerla. E sfilarsi fuori. Finalmente, respirare. Inspiro, espiro. Profondo, lento. Espiro, inspiro.
E urlare. Lanciare quel grido al cielo. Trafiggerlo con la voce.
Ma non c’è speranza, solo un mucchio di ossa buttate in angolo.
E la straziante verità di non saper fare la vita.