Mtoto Wangu II

Trigger Warning: discriminazione, violenza

Ecco, proprio dopo quel racconto iniziai la mia rigida e assoluta opposizione. Vedevo solo sangue. Il nostro. Cercavo di fargli capire che era una guerra invincibile e troppo pericolosa. Volevo proteggerli, volevo proteggermi. Era inutile andare contro a chi con un infimo movimento di indice può sfondarti il cranio. “Sforzo minimo, massimo risultato”, immaginavo questo come motto di quei “figli dal cuore in bianco e nero”.
Prima di Sharpeville c’era chi veniva picchiato perché sedeva in autobus su un sedile per bianchi, chi con l’idrante di acqua gelida veniva spazzato via dal lato della strada che per legge non poteva percorrere, chi veniva bruciato con l’acqua bollente perché aveva osato entrare in un bar per bianchi e sedersi al bancone. Come potevano non aspettarsi una reazione come quella? 
Ma dove va a finire la follia di un popolo che le tenta tutte, quando c’è un massacro come quello a Sharpeville? Non aveva alcun senso. 
Ma mamma Gladys e papà Klass continuavano a non pensarla così. Seguivano il pensiero di Rolihlahla (che già dal nome prometteva bene: “colui che provoca guai”), che da Johannesburg contrastava il “National Party” con il suo “African National Congress” e che, proprio dopo quel massacro a Sharpeville, era finito in carcere per aver protestato in maniera più violenta. Ecco, ennesimo sciocco che perde la vita per una lotta inconsistente…
Quando ero piccola, in casa mia non si parlava d’altro che di Rolihlahla e della sua detenzione. In giro lo chiamavano con un altro nome, Nelson, ma se noi avessimo osato chiamarlo così ci sarebbe spettata una bella cinquina sulla faccia. Lui era uno di noi e dovevamo chiamarlo con il suo vero nome, non con quello che gli avevano dato i bianchi, come erano soliti fare con tutti noi. Al massimo potevamo chiamarlo Madiba (come alla fine lo chiamarono tutti), il nomignolo della sua tribù di provenienza. All’epoca non capivo l’importanza di quell’uomo. La capii con calma, nel tempo. In quel momento ero stanca anche di lui. 
Quando nel Novanta fu rilasciato, ebbi una strana sensazione. Dopo ventisette anni di carcere ti aspetti un uomo rude, arrabbiato con il mondo dei “figli dal cuore in bianco e nero” e invece no, tutt’altro. Aveva una calma e una serenità incomprensibili per me. Io, diciottenne, ero arrabbiata con tutto: con la mia terra, con la mia famiglia che cercava ingenuamente di salvarla e con tutti quelli che cercavano di farmi sentire in colpa perché io non ero disposta ad immolare la mia vita per degli ideali apparentemente irraggiungibili. Io ero fuoco, lui, dopo aver vissuto quasi trent’anni in cinque metri quadri, era acqua. Lo scoprii più tardi che l’acqua è molto più forte del fuoco. 

Madiba adottò una strategia non violenta. Tutto quell’odio, le discriminazioni, le umiliazioni… e lui dal momento del rilascio ripeteva un solo mantra, sempre lo stesso: una poesia di William Ernest Stanley. Non erano parole sue, ma era come se lo fossero.

It matters not how strait the gate, How charged with punishments the scroll,
 I am the master of my fate, I am the captain of my soul.

Non importa quanto sia stretta la porta, quanto piena di castighi sia la vita, 
io sono padrone del mio destino, io sono capitano della mia anima.


E poi successe… tutti ricordano e ricorderanno per sempre: con lui il mondo tornò a colori. Nelson Rolihlahla Mandela primo presidente nero del Sudafrica
Li vedete? Uno scoppio di giallo, uno di blu, uno di rosso. I fuochi d’artificio che hanno fatto del nostro paese un arcobaleno incredibile. Un miracolo! 
Si, esatto: “a rainbow nation in peace with itself and the world”.
Inizialmente credevo che tutto questo sogno avrebbe retto il tempo di uno sbadiglio. Come se fosse un’illusione momentanea ed effimera e poi, quando i fuochi d’artificio avessero smesso di brillare in cielo, il bianco e il nero avrebbero ripreso ad abitare tra noi. 
E invece no, con lo sport ha vinto la partita definitiva. Sport has the power to change the world. E nel 1995 i colori accesi degli Springboks del Sudafrica vincono contro il nero degli All Blacks neozelandesi, squadra imbattuta. Pazzesco. Che c’entra? Eh, c’entra eccome. I Sudafricani per la prima vera volta si sono uniti insieme, bianchi e neri, sotto un’unica squadra, un’unica bandiera, tutta dello stesso colore: verde e giallo ocra.

E ora? Che dovevo pensare? Ero così confusa. Le mie convinzioni fatte a pezzi da un uomo che era riuscito laddove tanti prima di lui avevano perso la vita. Allora questa lotta aveva senso? 
Mi sentivo in colpa ad aver avuto così tanta paura. E allo stesso tempo ero arrabbiata. Eccole qui: Paura e Rabbia. Ero una persona cresciuta nella rabbia, provavo rabbia per tutto. Mi rendevo conto di essere nata in un popolo con le catene ai piedi. Ero convinta che rendersi invisibili fosse la cosa migliore da fare. E poi lui ha spezzato le catene e il mio sguardo si è raggelato. Quello stridio di anelli d’acciaio che sbattono per terra non appena muovi un passo mi aveva sempre accompagnato. Ed ora il silenzio pugnalava la codardia dietro la quale inconsapevolmente mi ero nascosta. 
Dovevo andarmene. Respirare. Solo un attimo. 
E me ne andai. Respirai. Anche per più di un attimo. 

… Ho la lettera in mano. Sono arrivata alla fine: “Ti mando uno sguardo intenso. Shalila.
Una lacrima mi bagna la guancia destra e tra poco ne seguiranno altre. Mi sento male. Mi sento sporca. È una sensazione orribile. Cathy mi raggiunge, divertita dal gatto che ha sbattuto maldestramente contro il divano, e cerca di coinvolgermi. Appena vede la mia faccia si zittisce. Vede l’indirizzo sulla busta e crede sia morto qualcuno. Io non dico nulla e le porgo la lettera. Non è morto nessuno, ma è come se fosse così. 
Nella lettera, Shalila, la mia amichetta del cuore che prendeva sempre in giro nonno Kyon, mi racconta che dopo il mio allontanamento tutto è stato più difficile per lei. Si è innamorata di una ragazza che, dice lei, mi assomiglia molto. Ammette che ha sempre avuto un debole per me ma non si è mai chiesta il senso di quel sentimento. Le piaceva così com’era. Le domande le sono arrivate dopo, quando io me ne sono andata.
Questa cosa mi apre un ricordo visivo istantaneo: ci sono io che la abbraccio il giorno della partenza. Nessuna delle due ancora sapeva cosa ne sarebbe stato di noi. Nessuna di noi sapeva che ci saremmo innamorate di due ragazze. O per lo meno io ancora non lo sapevo, lei, in caso, non me lo ha mai rivelato. Però ci fu quello sguardo. Non serviva dire niente, avevamo già capito tutto. Forte. Intenso. Nei suoi occhi vedevo la nostra infanzia e nei miei lei vedeva il nostro futuro. Non riuscivo a mollarle la mano. Avevo paura. Ne aveva anche lei. Le dissi che sarei tornata presto. Mi disse che mi avrebbe raggiunta presto. Nessuna delle due cose accadde.

Ritorno alla realtà e rivivo le parole che mi ha scritto e che fatico a realizzare. Non le penso soltanto, le vedo anche, proprio come mi succedeva con nonna Keyla. 

Non hanno mai accettato… mi confido con te perché solo tu sei sempre riuscita a leggermi… non so che fai, non so dove sei, ma so che comprendi … ho bisogno di dirlo a qualcuno e tu sei quel qualcuno… l’unico qualcuno che vale… 
Hanno permesso che prendessero me e la mia ragazza… c’erano i miei genitori dietro a tutto … volevano “correggere” il mio comportamento… hanno permesso che ci spogliassero… che ci tenessero ferme… ci hanno sentite piangere e urlare… hanno solo chiuso la porta… Erano in quattro… due su di me… due su di lei… lottavamo, quindi dovevano tenerci ferme… dicevano: “adesso ti insegno come si fa, come è giusto fare”… oppure: “ti curiamo noi!”… quando è entrato dentro di me le forze mi hanno abbandonato… parlavamo sempre di quanto fosse brutto il mondo in bianco e nero ti ricordi? ecco, d’un tratto c’era solo nero… era sparito pure il bianco portandosi dietro tutti quei colori che il nostro paese aveva faticato tanto a riavere… mi sono sentita sporca e debole… mi sono sentita incapace di proteggere me… di proteggere lei… poi… non riuscivamo più a guardarci… quello è un silenzio che non si scorda più. Assordante… da lì non l’ho più vista.

Mentre Cathy sta ancora leggendo, vedo le sue mani che iniziano a tremare. Un conato mi trafigge la gola. Scappo in bagno e svuoto tutto. Piango, piango forte e tanto. Potevo essere io. Mamma Gladys e papà Klass non lo avrebbero mai permesso, no. No? Credo. Potevo essere lì con lei. Potevo essere io l’altra con lei. Per un attimo tutto attorno a me si è bloccato, si è fatto bianco e nero. Pure lì, a tredicimila chilometri di distanza. 
Raggomitolata di fianco al water mi stringo le gambe proprio come se stessi stringendo Shalila. Arriva Cathy e mi abbraccia. Dovevo essere io la sua Cathy. Dovevo esseri lì e abbracciarla. 
Decido di prendere il primo volo disponibile. Cathy è preoccupata. “Poi torni?”. La rassicuro: “torno”

Atterro a Umlazi. Arrivata a casa, abbraccio i miei genitori e dico loro che voglio vederla. Papà Klass mi ferma e mi dice che Shalila non c’è più. Per un attimo penso che il destino ci stesse giocando uno scherzo simpatico, facendoci scambiare: sta andando a Toronto per me, mentre io sono venuta qui per lei. Che pensiero stupido. “E dov’è?” chiedo con un sorriso ingenuo aspettando la conferma di quel pensiero altrettanto ingenuo. Il loro sguardo mi sega i tendini dietro alle ginocchia e cado seduta sui miei talloni.

Shalila si è tolta la vita venti giorni prima del mio arrivo. Esattamente il giorno in cui era datata la lettera che ho ricevuto. Era il suo saluto finale. Ero in ritardo di venti giorni. Piango. Piango per le nostre vite. Due vite violentate. Due vite che hanno lottato per colori accesi e vivaci, ma che hanno finito per essere inghiottite in un bianco e nero che non si toglie più dall’anima. Che non si toglie più dal cuore. Non voglio che Shalila muoia così. Non voglio che lei sia una delle tante prima del prossimo Rolihlahla. Voglio che lei viva in me e che con me ridisegni i colori del prossimo arcobaleno. Non sarò il prossimo Nelson Rolihlahla Mandela, ma sarò con coraggio la prossima Zanele Muholi.

 Ryerson University Thesis:

 The female black body has been treated as object to be explored by Western science
and as an entertainment for the European consumption, from the very start of colonialism.
For this reason, I actively chose to work against all this, through photography.
Zanele Muholi, 2008-2009.


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