Mtoto Wangu I
Toronto, 2009.
È a Toronto, in Canada, che ho cercato di ritrovarmi scappando dalla paura e dalla rabbia. Senza guardarle in faccia, ma reinventandomi totalmente in un paese lontano e diverso. Ed è qui che mi trovo a racimolare idee per la tesi di fine Master. Mi sto diplomando in Fine Arts alla Ryerson University e voglio trovare un argomento significativo.
È un giorno di inizio primavera. Qui, quando i primi fiori germogliano, non fa mica caldo come a Umlazi, la mia città natia del Sudafrica. Quel posto mi manca praticamente solo per questo: il caldo e il sole che riscalda per davvero. Non essendoci abituata, il freddo mi intristisce. Ma alla fine a Toronto non c’è tempo per essere tristi. È troppo piena, troppo movimentata.
La mia ragazza, Cathy, è qui con me in camera e cerca di aiutarmi a trovare il tema giusto su cui centrare il mio lavoro. È più di un mese ormai che accumulo articoli, scritti, personaggi importanti, ma nulla mi accende quella voglia di scrivere, quella lampadina in più. Inizio ad essere davvero demotivata. È frustrante sentirsi ferma in un mondo che continua ad andare così veloce. Un’ansia che non mi era mai capitato di provare ad Umlazi, dove tutto ha il suo corso e il tempo scorre lento e silenzioso. Dove il respiro è importante tanto quanto la realizzazione di una vita serena e felice. “Perché te ne sei andata allora?”, mi ripete Cathy dopo l’ennesimo sfogo isterico sulla mia situazione infelice. Eh, già. Perché me ne sono andata?
Ed è proprio nello smarrimento, nella disperazione più totale, che sento bussare alla mia porta. Frustrata e quasi in lacrime vado ad aprire e mi ritrovo in mano una lettera. – Maledetta quella lettera.
Nella busta, affianco ai timbri delle dogane postali, a penna, è scritto il paese e la città di provenienza. Viene da casa. Ma quella non è la scrittura di mamma Gladys o di papà Klass, né di nessuno dei miei fratelli. Non la riconosco subito. Apro la lettera…
Sono nata in un momento difficile della storia del mio paese. Gli anni Settanta sono stati pieni di odio. Il mondo era in bianco e nero, non solo sugli schermi televisivi nei salotti di quelle poche famiglie privilegiate che potevano permettersi una tv, ma anche nelle strade, negli autobus, persino nei bagni pubblici. Chi aveva deciso per primo di iniziare a togliere tutti i colori dal mondo doveva essere un gran bastardo, ma le cose sono peggiorate con l’arrivo di Mr Baffetto con la mano rigida e tutte quelle K “juu punda wangu” (fin su per il culo), così diceva nonna.
Nonna Keyla, oltre a non avere peli sulla lingua, era l’unica, in famiglia, a parlare ancora la lingua bantu. Ormai le nostre generazioni erano state “corrotte” – sosteneva. Ed era vero: fin da piccini parlavamo inglese, come tutti in città, e lo stesso i nostri genitori, solo con qualche parola dialettale sputata qua e là.
Nonna Keyla mi raccontava sempre mille storie per tenermi legata alla nostra tradizione. Solo a me, la più piccina. Sarà che Zebele, Zelda, Zachary, Zeya erano più interessati a giocare con gli amichetti e a perdersi dietro le farfalle.
Avevo una sensibilità visiva particolare, diceva sempre, ed era vero perché tutte le cose che mi raccontava io le vedevo formarsi davanti agli occhi. Sciamani, amuleti, pozioni, animali selvaggi, oggetti che conservano l’anima di chi non c’è più. In quelle storie ritrovavo il mondo colorato, anche se fuori continuava l’effetto seppia.
Quando compii dieci anni, arrivò però l’età “adulta”. E con l’età adulta, i racconti di nonna cambiarono e si scontrarono con una realtà cruda e violenta. Io, in ultima fila, speravo di nascosto che si tornasse a parlare di giallo, rosso e blu; invece, anche la nonna ormai parlava solo in bianco e nero.
Iniziava sempre con Mr Baffetto che continuava a peggiorare le cose. Durante la Seconda Grande Guerra a fianco a lui in Sudafrica si è schierato il “National Party” degli AfriKaner. E quella “K” grossa e severa si era fatta spazio e aveva imposto leggi rigide e mortificanti per i neri come noi. Ma la verità, continuava nonna Keyla, è che quella discriminazione era iniziata da molto prima con l’invasione, dove quei pallidi squilibrati hanno dettato legge dal primo momento solo perché le loro armi facevano più male delle nostre. “Ci hanno sfruttato, maltrattato, torturato, schiavizzato…”
Quando nonna entrava nei dettagli di storie di persone che poi per miracolo erano riuscite a tornare, dopo anni e con i segni delle torture sulla pelle, i miei occhi luccicavano e il mio viso si riempiva di tristezza. “Non c’è da piangere mtoto wangu (piccola mia). C’è solo da essere preparati a rispondere. Essere forti”. Insomma, in qualche modo ci stava forgiando per una guerra che tutti noi avremmo dovuto essere pronti ad affrontare prima o poi.
Nonno Kyon era uno di quelli che erano tornati. La sua schiena portava cicatrici talmente pesanti che l’avevano incurvato e camminava tutto storto. Non parlava mai, sputava fuori solo qualche parola in bantu, quando doveva lamentarsi di qualche dolore.
“Secondo me gli hanno strappato la lingua” mi ripeteva spesso la mia amica Shalila quando lo incrociavamo per andare a scuola. E un giorno la curiosità mi ha spinto oltre, sono andata da lui e gli ho fatto una linguaccia. La sua prima risposta fu quella di girarsi e non darmi retta. Ma io ero cocciuta, gli toccai la spalla e gli mostrai la lingua nuovamente. Solo a quel punto, con un broncio insofferente, ricambiò il gesto. E così la vidi, lunga e rugosa. C’era eccome. Forse, a questo punto, era il dolore ad avergli strappato via le parole.
Fu quando papà Klass ci raccontò cos’era successo a suo fratello Kyto e ai suoi due figli che ho iniziato ad allarmarmi e a credere che fossero tutti pazzi. Era il 21 marzo 1960. Papà doveva andare a Sharpeville con loro, ma per fortuna rinunciò perché mamma Gladys quel giorno stava male. Era una manifestazione pacifica di cinquemila persone nere. Molte famiglie con bambini. Protestavano contro le nuove limitazioni sulle zone frequentabili dai soggetti neri.
Mai nessuno avrebbe pensato sarebbe finita così... Settanta morti, tra cui Kyto e i suoi figli.
Lo sentii forte e chiaro. Avevamo sorpassato il velo sottile che trasforma il coraggio in mancanza di sensatezza. Immolarsi per una guerra che sembrava non avere fine, non aveva più niente a che fare con il coraggio. Era solo stupidità kamikaze.
Alla fine, cos’è il coraggio?
Forse vanità incosciente. Esibizione.
E che rumore fa il coraggio, quando cade a terra?
… to be continued