Una controversa convivenza
“quella croce senza giustizia che è stato
il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi
la grande potenza della vita”
Se poteste infilarvi negli androni della mia mente, vedreste i mostri. Non è una guerra, la nostra, ma una controversa convivenza. Inquilini di un monolocale. Clochard della mia anima. Loro sono me, io sono loro. Ce ne andiamo via, lontano. Ogni tanto, nella poesia. Ogni tanto, al manicomio.
Mi danno della pazza, la pazza della porta accanto. E io do dei pazzi a loro.
Ma cos’è la follia? Il tocco di Dio. Un punteruolo che buca il mistero della vita. Ci fa più prossimi alla morte, per farcene dimentichi.
Non c’è poeta, senza un’anima che soffre. È l’ombra dell’esistenza che ci dà la parola. Abbiamo lottato, abbiamo gridato, abbiamo soverchiato le zolle. Abbiamo preso la terra, il fango, e ne abbiamo fatto versi di rugiada. A volte dolce, a volte acida. Ma non racconto l’inferno. Solo chi è sceso negli abissi, risucchiato dai fondali, ha cognizione del dolore. Per tutti gli altri, non è che un’immagine, una chimera, un contorno.
A che caro prezzo si paga, la rinuncia al dolore. È rinuncia alla vita.
Quando sentivo che il peso era troppo, che la schiena si inarcava, che la colonna vertebrale tremava, mi preparavo il mio fagottino e mi presentavo al cancello di quell’ospizio. Me lo imponevo da sola, il manicomio. Come si ingoia una medicina, come ci si inietta una cura. Tornavo all’inferno, perché non c’era altra via. Accadeva l’inimmaginabile, lì dentro. Vittime e carnefici. Donne e uomini ridotti ad automi. Depersonalizzati. Abusati e stuprati, nell’anima e nel corpo. Elettroshock e pillole. Allucinazioni e paure. La pena dell’assassino e del secondino. Ma chi erano i pazzi? Noi o loro? Mi calmavano la mente, mettevano a tacere le grida dei mostri. Trovavo tregua. Era fuoco e gelo, insieme. Il calore avvolgente del sedativo, il freddo tagliente del ferro.
Cosa lasci fuori? La tua vita. O meglio, la parte di te che sta dentro alla vita.
Io lasciavo un marito. E lasciavo le mie figlie.
La maternità mi ha salvata in tanti modi. Mi ha dato un silenzio. Un respiro di pace. Stavo sempre meglio quand’ero incinta. La vita mi scorreva nelle vene. Quella dell’essere che portavo in grembo, quella del figlio. La mia e la sua, insieme. Io donna. Non donna poeta. Non donna pazza. Non donna malata. Donna, e basta.
Non donna madre. Perché me l’hanno tolto. Non potevo occuparmi di altri che di me.
Ho dato le mie figlie in affidamento. In verità, le hanno date via loro, per me. Le ho amate e odiate. Le volevo, e poi non le volevo più. Forse, volevo essere più gestante, che madre. Mi piaceva tenerle in grembo, sentirle dentro di me. Mi piaceva crearle. Mi piaceva essere la culla della loro prima vita, quella del feto nell’embrione. Quando stai appena diventando qualcosa. Quando sei un soffio soltanto, un seme di pensiero. Quando hai ancora bisogno di me. Quando ancora non puoi nulla, senza di me.
In alcune mie folli visioni, immaginavo il feto uscirmi dalla bocca. Come potessi partorire mia figlia con un urlo atroce, o un conato di vomito. Sputarla fuori nel mondo. Liberarmi di lei, ingombrante e coercitiva. Inquilino scomodo della mia anima. Era così bella la gravidanza. Era così invadente. Il dialogo silenzioso con i mostri, interrotto bruscamente. Presenza subdola, lei. Io, come spiata da uno spioncino, come violata. Violata da quell’essere immondo che scalpitava per liberarsi del mio corpo. La sua gabbia. Casa e prigione. L’unico accesso alla vita, l’ultimo ostacolo alla vita.
Potevo crearla, ma non potevo occuparmi di mia figlia. Né della prima, né della seconda, terza e quarta. Non potevo accompagnarle, lungo lo scorrere del tempo, nel susseguirsi dei giorni, verso il traguardo delle loro fragili esistenze. Non potevo osservarle diventare grandi. Potevo solo fare capolino ogni tanto, da dietro lo stipite, nascosta come una ladra, come una strega. Non so se avessero paura di me, ma io ne avevo di loro. Erano coltelli conficcati nella mia carne. Potevano uccidermi. Potevano ferirmi. Potevano trapassarmi da parte a parte, o anche solo segarmi, o anche solo sfiorarmi. Un rigolo di sangue, un pizzico lieve. Ma ne uscivo devastata. Bastava uno sguardo, una parola, un gesto. Non ero la loro madre. Ero solo la loro gestante. Mi somigliavano nel corpo, ma che distanza nel cuore. Che compassione per quelle anime abbandonate, per quelle anime che non potevo curare. Avevo me, da curare. Anima tormentata.
Certe notti non le dimentichi più. Esci dalla vita per un po'. Ti assenti. Sali in groppa ai tuoi mostri e sparisci con loro. Entri nella morte. Lì dove non può esistere la vita. E non puoi esistere tu. E vedi cose che non puoi raccontare. Perché non c’è parola. Non c’è linguaggio né voce. Puoi solo attraversarle, in groppa ai tuoi mostri. In una di quelle certe notti. Che poi non dimentichi più.
Volevo scrivere. Volevo essere poeta.
Mia madre mi voleva madre, e moglie. Guardiana della casa e degli affetti. Mio padre mi amava. Mi voleva felice. Ma con la poesia non si mangia, che significa che non si vive. Che significa: smettila Alda, con le favole. Trova un mestiere e un marito. E io: no, padre, non voglio un mestiere né un marito. Voglio le favole. Forse è così, che son diventata pazza. Sono testarda. E testardaggine è pazzia: c’è sempre di mezzo la testa. La testa che sbatti forte contro il muro per fare rumore - il suono della ragione. E la testa che sbatti forte contro il muro per ridurla in brandelli - il suono della follia.
Ho continuato a scrivere, di nascosto. Non potevo fare altrimenti. Un flusso di versi dirompente mi sgorgava dalle narici, dalle orecchie, dalla vagina. Da ogni incavo del corpo. L’anima scalpitava. Non avevo scelta. Che altro, se non riversarla su un foglio bianco, dare luce al dolore, come a un figlio? Dargli forma, e forza, e nome. Non potevo essere solo moglie e madre. Io ero poeta. Io sono poeta, finché ho voce.
E pazza, ma pazza di vita.
Pazza d’amore.