Piacere, io sono pesantezza
La pesantezza, la complessità, i severi e rigidi rapporti con il rispetto e i sensi di colpa. Tutte cose mie. Strette al cuore sono piombo che appesantisce gli arti.
Non appena le appoggio, le membra si sollevano, mi sento più alto, più dritto. Tutto, per qualche istante, sembra più allegro e più luminoso. Ma poi è vuoto, è nudità. Mi sento spogliato, mi sento incompleto. Accorro a riprenderle tutte, una ad una, e nella pesantezza ritrovo il mio senso senza il quale non sono nessuno.
Piacere, io sono pesantezza. È lei che mi toglie nome e cognome, ma mi riempie di altro e mi da un luogo, un ambiente, dove ritrovarmi a mio agio, dove abitare.
Triste, ma vero.
Come è vero che tutti i traumi che ci calpestano poi ci vestono addosso e nessun altro indumento ci sta più così bene.
Non siamo altro che traumi accumulati. Reagiamo, ragioniamo e ci comportiamo come loro ci hanno insegnato. Ci stiamo proteggendo? Forse danneggiando ancora di più.
Perché il trauma è latente, ma invisibile. Tutt’altro che narciso, non si mostra in nessuna forma o consistenza. E tu credi di star bene. Credi di essere tranquillo e sereno.
Addirittura, cadi nell’illusione di aver meno pesantezza.
Ed è lì che ti spezza le gambe, tagliandoti i tendini e mettendoti in ginocchio. E ti senti regredito di vent’anni. Senti che il tuo crescere va a ritroso e ti ritrovi davanti ad un te stesso di sei anni, moccioso pidocchioso col moccolo alle caviglie.
E che ne è stato di tutto il resto? Di tutti quegli sforzi per crescere e reagire ai rovesci della vita?
Che ne è stato di te? Dove sei finito? Chi sei veramente?
Un moccioso? Un ragazzo? Un uomo adulto?
Che importa se quello che rimane non è altro che pesantezza?
G.